Gli accordi prematrimoniali sono validi se non sono diretti e non hanno l'effetto di comprimere i diritti ed i doveri coniugali...è quanto afferma la Corte Suprema
Approfondimento a cura di
Maria Antonietta Usai
avvocato del foro di Cagliari
Con la recente sentenza n. 23713 del 21/12/12, la Suprema Corte, con un'inversione rispetto a pronunce precedenti, riconosce validità agli accordi intercorsi prima del matrimonio.
La
causa traeva origine da una scrittura privata sottoscritta dai coniugi
il giorno prima delle nozze, secondo la quale in caso di fallimento del
matrimonio, la moglie sarebbe stata obbligata a trasferire la
proprietà di un suo immobile a titolo di indennizzo per le spese
sostenute dal marito per la ristrutturazione di altro immobile,
anch'esso di proprietà della donna, da adibire a casa coniugale.
Venuta
meno l'unione tra i coniugi, il Tribunale di Macerata adito dalla
moglie dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio,
affidava i figli minori alla madre, determinando l'ammontare
dell'assegno dovuto dal padre per il loro mantenimento e rigettava la
domanda riconvenzionale dell'uomo, volta ad ottenere sentenza
costitutiva ex art. 2932 c.c., per la esecuzione in forma specifica
dell'impegno assunto con la scrittura privata prima del matrimonio.
Avverso la sentenza proponeva appello il marito, limitando l'impugnazione alla sola questione della validità ed eseguibilità dell'impegno assunto dalla moglie prima del matrimonio.
La Corte di Appello di Ancona, in
parziale riforma della sentenza del Giudice di prime cure, dichiarava
valido ed efficace, nei confronti del marito, l'impegno negoziale della
moglie, omettendo pronuncia ex art. 2932 c.c.ed invitando parte
interessata ad attivarsi al riguardo, in separata sede.
Ricorreva
per Cassazione la moglie, eccependo la nullità negoziale della scrittura
privata, inquadrabile a suo avviso, tra gli accordi prematrimoniali.
Come è noto, il legislatore all'art. 160 c.c.,
ha stabilito che gli sposi non possono derogare ai diritti e doveri
previsti dalla legge per effetto del matrimonio, richiamando
espressamente gli articoli del codice civile riguardanti l'obbligo di
fedeltà, di assistenza morale e materiale, di collaborazione
nell'interesse della famiglia e della coabitazione.
Pertanto, sotto il
profilo processuale, una
convenzione che avesse ad oggetto la compressione di questi diritti,
comporterebbe la limitazione della libertà processuale delle parti e la
rinuncia ad un diritto futuro, con conseguente illiceità della causa.
In sede di legittimità, tuttavia, riprendendo quanto disposto dalla Corte d'Appello, la Suprema Corte non inquadra l'accordo sottoscritto dai coniugi, come un patto prematrimoniale, teso a regolare l'assetto economico futuro tra la coppia, ma lo identifica come un accordo derivante dalla libera espressione dell'autonomia negoziale delle parti.
L'impegno
negoziale della moglie, è difatti considerato una sorta di datio in
solutum, collegata alle spese affrontate dal marito per la sistemazione
di altro immobile adibito a casa coniugale, mentre il fallimento del
matrimonio è degradato a mero "evento condizionale" e non considerato
quale causa genetica dell'accordo.
Invero,
precisa la Cassazione, ove causa genetica dell'accordo fosse il
matrimonio (ed il suo fallimento), l'accordo tra le parti, costituirebbe
una sorta di elemento dissuasivo volto a condizionare la libertà degli
sposi anche in ordine all'assunzione di iniziative tendenti allo
scioglimento del vincolo coniugale, con conseguente nullità del patto
stesso.
Nel caso in
esame ci troviamo, viceversa, dinanzi ad un accordo tra le parti, libera
espressione della autonomia negoziale, estraneo alla categoria degli
accordi prematrimoniali e caratterizzato da prestazioni e
controprestazioni tra loro proporzionali, sottoposto alla condizione
sospensiva e non meramente potestativa ( ovviamente nulla ) del
verificarsi del fallimento del matrimonio.
Con
la conseguenza che, in costanza di matrimonio, opera tra i coniugi il
dovere reciproco di contribuzione di cui all'Art. 143 c.c.: ed i
rapporti di dare ed avere patrimoniale subiscono, in virtù del dovere di
solidarietà, una sorta di "sospensione"
che cesserà con il "fallimento" del matrimonio. Alla luce di tali
considerazioni, la Corte reputa valido ed efficace l'accordo stipulato
dai coniugi e rigetta il ricorso presentato dalla moglie.
CASSAZIONE SEZIONE I CIVILE Sentenza 21 dicembre 2012, n. 23713
Motivi della decisione
Con il primo motivo la
ricorrente sostiene che la scrittura privata in questione trarrebbe il
proprio titolo genetico dal matrimonio e integrerebbe violazione
dell'art. 160 c.c., ove si precisa che i coniugi non possono derogare ai
doveri e diritti nascenti dal matrimonio.
Con
il secondo lamenta la ricorrente insufficiente e contraddittoria
motivazione della sentenza impugnata all'interpretazione della predetta
scrittura. La scrittura privata, sottoscritta dai nubendi il giorno
prima della celebrazione del matrimonio, prevede che, in caso di suo
fallimento (separazione o divorzio), la P. cederà al marito un immobile
di sua proprietà, quale indennizzo delle spese sostenute dallo stesso
per la ristrutturazione di altro immobile, pure di sua proprietà, da
adibirsi a casa coniugale; a saldo, comunque, l' O. trasferirà alla
moglie un titolo BOT di L. 20.000.000.
E'
evidente che la ricorrente inquadra la predetta scrittura tra gli
accordi prematrimoniali in vista del divorzio, molto frequenti in altri
Stati, segnatamente quelli di cultura anglosassone, dove essi svolgono
una proficua funzione di deflazione delle controversie familiari e
divorzili.
Come è noto,
la giurisprudenza è orientata a ritenere tali accordi, assunti prima del
matrimonio o magari in sede di separazione consensuale, e in vista del
futuro divorzio, nulli per illiceità della causa, perchè in contrasto
con ì principi di indisponibilità degli status e dello stesso assegno di
divorzio (per tutte, Cass. N. 6857 del 1992). Tale orientamento è
criticato da parte della dottrina, in quanto trascurerebbe di
considerare adeguatamente non solo i principi del diritto di famiglia,
ma la stessa evoluzione del sistema normativo, ormai orientato a
riconoscere sempre più ampi spazi di autonomìa ai coniugi nel
determinare i propri rapporti economici, anche successivi alla crisi
coniugale. (E' assai singolare che invece siano stati ritenuti validi
accordi in vista di una dichiarazione
di nullità del matrimonio, perchè sarebbero correlati ad un
procedimento dalle forti connotazioni inquisitorie, volto ad accertare
l'esistenza o meno di una causa di invalidità del matrimonio, fuori da
ogni potere negoziale di disposizione degli status: tra le altre, Cass.
N. 348 del 1993).
Giurisprudenza
più recente di questa Corte ha invece sostenuto che tali accordi non
sarebbero di per sè contrari all'ordine pubblico:più
specificamente il principio dell'indisponibilità preventiva
dell'assegno di divorzio dovrebbe rinvenirsi nella tutela del coniuge
economicamente più debole, e l'azione di nullità (relativa) sarebbe
proponibile soltanto da questo (al riguardo, tra le altre, Cass. N. 8109 del 2000; n. 2492 del 2001; n. 5302/2006).
Va
peraltro precisato che la sentenza impugnata, sorretta da motivazione
ampia, articolata e non illogica, ha fornito un preciso inquadramento
della scrittura privata in esame. Si tratta, all'evidenza, di
valutazione di merito, insuscettibile di controllo in questa sede, ove
immune da errori di diritto.
L'impegno
negoziale della P., una sorta di datio in solutum, viene collegato alle
spese affrontate dall' O. per la sistemazione di altro immobile adibito
a casa coniugale, e il fallimento del matrimonio non viene considerato
come causa genetica dell'accordo, ma è degradato a mero "evento
condizionale". Prosegue la Corte di merito precisando che, ove causa
genetica fosse il matrimonio (e il suo fallimento), l'impegno predetto,
una sorta di sanzione dissuasiva volta a condizionare la libertà
decisionale degli sposi anche in ordine all'assunzione di iniziative
tendenti allo scioglimento del vincolo coniugale, sarebbe sicuramente
nullo.
Ma indice di tale ipotesi potrebbe essere soltanto una notevole sproporzione delle prestazioni, al contrario non provata.
L'argomentazione
è censurata dalla ricorrente, ma, al contrario, la Corte territoriale
ha fatto buon uso delle regole di ermeneutica contrattuale, in
particolare con riferimento all'art. 1363 c.c., per cui le clausole del
contratto si interpretano le une per mezzo delle altre, attribuendo a
ciascuna il senso che risulta dal complesso dell'atto.
Si
tratterebbe in definitiva - si può aggiungere - di un accordo tra le
parti, libera espressione della loro autonomia negoziale, estraneo
peraltro alla categoria degli accordi prematrimoniali (ovvero effettuati
in sede di separazione consensuale) in vista del divorzio, che
intendono regolare l'intero assetto economico tra i coniugi o un profilo
rilevante (come la corresponsione di assegno), con possibili
arricchimenti e impoverimenti. Nella specie, dunque un accorcio
(rectius: un vero e proprio contratto) caratterizzato da prestazioni e
controprestazioni tra loro proporzionali, secondo l'inquadramento
effettuato dal giudice a quo.
Come si è detto, una motivazione adeguata e non illogica, e immune da errori di diritto.
Come
è noto, ai sensi dell'art. 1197 c.c., il debitore non può liberarsi
eseguendo una prestazione diversa da quella dovuta, salvo che il
creditore vi consenta; l'obbligazione si estingue quando la diversa
prestazione è eseguita. Nella specie, il trasferimento di immobile può
sicuramente costituire adempimento, con l'accordo del creditore,
rispetto all'obbligo di restituzione delle somme spese per la
sistemazione di altro immobile, adibito a casa coniugale.
La
condizione, nella specie sospensiva (il "fallimento" del matrimonio)
non può essere meramente potestativa ai sensi dell'art. 1355 c.c., e
cioè dipendere dalla mera volontà di uno dei contraenti (ciò che, nella
specie, non potrebbe verificarsi, considerando, evidentemente, le parti
tale "fallimento", come fattore oggettivo, indipendentemente da
eventuali responsabilità addebitabili all'uno o all'altro coniuge).
La
condizione neppure può porsi in contrasto con norme imperative,
l'ordine pubblico, il buon costume (in tal caso renderebbe nullo il
contratto, ai sensi dell'art. 1354 c.c.). Dunque nulla sarebbe una
condizione contraria all'art. 160 c.c., sopra indicato. E tuttavia,
nella specie, essa appare pienamente conforme a tale disposizione.
Ove
si consideri che in costanza di matrimonio (e prima della crisi
familiare) opera tra i coniugi il dovere reciproco di contribuzione di
cui all'art. 143 c.c.: il linguaggio comune spiega il significato ad
esso attribuito dal legislatore, è la parte che ciascuno conferisce, con
cui si concorre, si coopera ad una spesa, al raggiungimento di un fine.
Con la contribuzione si realizza dunque il soddisfacimento reciproco
dei bisogni materiali e spirituali di ciascun coniuge, con i mezzi
derivati dalle sostanze e dalle capacità di ognuno di essi.
Può
sicuramente ipotizzarsi che, nell'ambito di una stretta solidarietà tra
i coniugi, i rapporti di dare ed avere patrimoniale subiscano, sul loro
accordo, una sorta di quiescenza, una "sospensione" appunto, che
cesserà con il "fallimento" del matrimonio, e con il venir meno,
provvisoriamente con la separazione, e definitivamente con il divorzio,
dei doveri e diritti coniugali.
Condizione
lecita dunque nella specie di un contratto atipico, espressione
dell'autonomia negoziale dei coniugi, sicuramente diretti a realizzare
interessi meritevoli di tutela, ai sensi dell'art. 1322 c.c., comma 2.
Vanno pertanto rigettati i due motivi, in quanto infondati e, conclusivamente, il ricorso stesso.
Non è ravvisabile alcun provvedimento sulle spese non avendo l'intimato svolto alcuna attività difensiva in questa sede.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
|