La protezione internazionale e lo status di rifugiato

Il quadro delle norme che disciplinano la protezione internazionale, focus sullo status di rifugiato
 
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Il vigente sistema pluralistico della protezione internazionale ingloba differenti misure, graduate in funzione del compendio di diritti e garanzie accordate al beneficiario in relazione allo specifico titolo di soggiorno.
 
I principali referenti normativi in materia sono rappresentati, sul versante sovranazionale, dalla direttiva 2011/95/UE (c.d. direttiva qualifiche, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta), che ha abrogato la precedente direttiva 2004/83/CE; sul piano del diritto interno, dal d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251 (attuativo della citata direttiva  2004/83/CE), come risultante dalle modifiche introdotte dal d.lgs. 18 del 2014 (attuativo, a sua volta, della direttiva 2011/95/UE), dal d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, di riforma delle procedure di presentazione, esame amministrativo e tutela giurisdizionale delle domande di asilo, e dal d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico delle diposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero.

Ancora, tra le fonti di diritto internazionale,  merita menzione la  Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951,  “pietra angolare della disciplina giuridica internazionale relativa alla protezione dei rifugiati” (considerando n. 3 dir. 2004/83) ed utile ausilio ermeneutico per l’interpretazione delle disposizioni concernenti il riconoscimento della condizione giuridica di rifugiato.

Sulla base del combinato disposto delle norme in materia, tre sono gli istituti predisposti dal legislatore per ovviare alle istanze avanzate dai richiedenti protezione internazionale: lo status di rifugiato, quello di beneficiario di protezione sussidiaria e, residualmente, il permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Quanto, in particolare, allo status di rifugiato, ai sensi dell’art. 2, comma 1, l. e) d.lgs. 251/2007, la qualifica di rifugiato compete al “cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese, oppure apolide che si trova fuori dal territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni succitate e non può o, a causa di siffatto timore, non vuole farvi ritorno”.

Il riconoscimento del relativo status presuppone la riferibilità al ricorrente di una vis persecutoria, peraltro in correlazione causale necessaria con i motivi tassativamente indicati dal legislatore ed oggetto di ulteriore specificazione all’art. 8 dello stesso decreto.

Non integrano gli estremi dell’azione persecutoria singoli atti riconducibili ad episodi di criminalità ordinaria, richiedendosi piuttosto un sistema di condotte deliberatamente preordinate alla persecuzione personale e diretta del richiedente protezione, motivata dalle causali indicate.

Inoltre, non può prescindersi dalla necessaria verifica sulla sussistenza di un rapporto di diretta pertinenzialità tra il rischio paventato dal richiedente e l’identificazione di quest’ultimo quale esponente di un determinato gruppo etnico, religioso, sociale o politico.

Sul punto, la Corte di Giustizia dell’UE ha opportunamente evidenziato come “quando gli Stati membri valutano se un richiedente ha un fondato timore di essere perseguitato, è irrilevante se egli possegga effettivamente la caratteristica relativa all'appartenenza a un determinato gruppo sociale all'origine della persecuzione, sempre che tale caratteristica gli sia attribuita dall'autore della persecuzione” (C.GUE c. 473/2016 F c. Bevándorlási és Állampolgársági Hivatal).

Pertanto, ciò che rileva prioritariamente non è tanto la veridicità dei fatti addebitati al richiedente, quanto la circostanza che le accuse avanzate siano reali , id est effettivamente rivolte all’interessato,  in quanto “è la sussistenza di queste accuse che rende attuale il pericolo di persecuzione o di danno grave, in relazione alle conseguenze possibili secondo l’ordinamento straniero” (Cass., Sez. VI, 6 febbraio 2018).
 
L’art. 7 del medesimo  decreto individua gli atti in cui la condotta persecutoria si concreta attraverso l’espresso rinvio alla  Convenzione di Ginevra del 1951.

In particolare, gli atti persecutori devono essere sufficientemente gravi , per natura o frequenza,  da rappresentare una violazione grave dei diritti fondamentali e possono, tra l'altro, assumere la forma di:

a)    atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale;
b)    provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia o giudiziari, discriminatori per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio;
c)    azioni giudiziarie o sanzione penali sproporzionate o discriminatorie;
d)    rifiuto di accesso ai mezzi di tutela giuridici e conseguente sanzione sproporzionata o discriminatoria;
e)    sanzioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza del rifiuto di prestare servizio militare in conflitto, quando questo potrebbe comportare la commissione di crimini, reati o atti che rientrano nella clausole di esclusione di cui all’articolo 10, comma 2;
f)    atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l'infanzia.
 
 
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