pensione minima avvocati e esercizio professionale all'estero

Con una recente pronuncia la Suprema Corte ha chiarito che la pensione minima è dovuta anche all'avvocato che abbia esercitato all'estero non producendo redditi in Italia e pagando quindi sempre e solo la contribuzione minima alla CNPAF
 
 
Nell'ambito della previdenza forense l'iscrizione all'ente di previdenza presuppone l'iscrizione all'albo professionale e l'esercizio continuativo della professione forense. La continuità dell'esercizio professionale viene poi verificata sulla base di parametri individuati dalla Cassa. Il caso affrontato dalla Suprema Corte è quello, peculiare, di un avvocato il quale ha pacificamente esercitato continuativamente la professione all'estero producendo redditi denunciati fiscalmente nel luogo di produzione. In Italia, invece, il professionista non ha esercitato la professione versando alla Cassa esclusivamente il contributo minimo. La Cassa Forense ha ritenuto che l'esercizio della professione all'estero non potesse essere considerata ai fini della verifica della continuità dell'esercizio professionale. Al contrario, il professionista sosteneva che non vi fosse norma che precludesse di considerare, ai fini della verifica della continuità, l'esercizio professionale svolto all'estero. La Suprema Corte ha condiviso quest'ultima tesi e, quindi, ritenuta fondata la pretesa pensionistica dell'avvocato.
 
 
Cassazione civile, sez. lav., 26/02/2014,  n. 4584
 
Ai fini del riconoscimento del diritto alla pensione di vecchiaia spettante agli avvocati, gli elementi costitutivi della continuità professionale di cui all'art. 2 della legge 22 luglio 1975 n. 319 sono il dato storico dell'iscrizione alla cassa ed il concreto e protratto esercizio dell'attività professionale. Ne consegue che, ove l'avvocato abbia versato i contributi alla Cassa nazionale di previdenza forense e abbia dichiarato al fisco italiano un reddito pari a zero, per aver prodotto il reddito professionale interamente all'estero, ivi adempiendo agli obblighi tributari, non perde il diritto al trattamento pensionistico, dovendosi ritenere sussistente il requisito della continuità.


I due motivi, da esaminare insieme per la connessione, non sono fondati. Essi sottopongono a questa Corte la questione se un avvocato italiano, iscritto alla Cassa di previdenza nazionale, esercitando temporaneamente la sua attività soltanto all'estero e nondimeno continuando a versare i contributi alla detta Cassa, perda per quel periodo il requisito della "continuità" ai fini delle prestazioni previdenziali. Ciò anche quando egli, sempre in quel periodo, abbia dichiarato al Fisco un reddito pari a zero.
A questa questione la Corte d'appello ha dato esatta risposta negativa.
A norma della L. n. 319 del 1975, art. 2, che pone, ai fini ora detti, il requisito dell'esercizio della "libera professione forense con carattere di continuità", il Comitato dei delegati della Cassa ha determinato i criteri di accertamento del requisito stesso in base al reddito prodotto.
Il medesimo Comitato non ha previsto il caso in cui l'avvocato, producendo reddito professionale soltanto all'estero ed ivi adempiendo agli obblighi tributali, non abbia denunciato redditi in Italia.
Dalla sentenza qui impugnata risulta "pacifico che l'attuale appellato ha regolarmente versato i contributi alla Cassa (scil.
italiana) per gli anni nei quali ha svolto la libera professione in Australia. Dalla documentazione prodotta risulta ampiamente dimostrato lo svolgimento di tale attività che del resto non è contestata dalla Cassa di previdenza forense". Nè risulta agli atti di causa alcun inadempimento tributario in Italia.
La lacuna presente nella determinazione ad opera del Comitato dei delegati dev'essere colmata attraverso il richiamo non solo dell'art. 13 cit. della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo ma anche dell'art. 38 Cost., che nel secondo comma garantisce ai lavoratori il diritto a mezzi "adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria", così impedendo periodi di lavoro senza ragione prive di adeguata contribuzione previdenziale.
E' ben vero che l'avvocato il quale non raggiunga il reddito (e la corrispondente imposizione tributaria) minimo richiesto non può essere iscritto alla Cassa nazionale e, se vi partecipa, l'iscrizione va resa inefficace agli effetti dell'anzianità, con diritto al rimborso, a domanda, dei contributi relativi agli anni di inefficacia (art. 3 L. ult. cit. come modif. della L. n. 576 del 1980, art. 22, comma 7). Ma ciò comporta che, di fronte ad un reddito insufficiente, la Cassa può rendere inefficace l'iscrizione, mentre nel caso di specie la medesima, percepiti i contributi, non fa ora questione di insufficienza di essi.
 
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