abuso del processo

abuso del processo: contrario a buona fede separare l'azione di risaricmento dei danni materiali dall'azione di risarcimento dei danni fisici lo dice la Cassazione
 
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La Suprema Corte, con la recente sentenza n 28286 del 2011, si è occupata della questione relativa all'ammissibilità di un'esercizio frazionato dell'azione giudiziale volta a conseguire il risarcimento del danno fisico e materiale derivante da sinistro stradale.
 
La Suprema Corte ha ritenuto che costituisca un abuso dello strumento processuale contrario al canone di cui all'art. 1175 c.c. parcellizzare la tutela giudiziale incardinando due distinte azioni, la prima volta a conseguire il risarcimento del danno materiale dinanzi al GDP e l'altra diretta a conseguire il risarcimento del danno fisico dinanzi al Tribunale.

Al riguardo, la Suprema Corte ha avuto infatti modo di ricordare che il canone di buona fede e correttezza di cui all'art. 1175 c.c. non attiene solo al rapporto contrattuale ma permea di sè, anche alla luce dell'innovato art. 111 cost, le modalità di fruizione dello strumento processuale per la tutela dei propri diritti.
 
In particolare, secondo la Suprema Corte, si verificherebbe un abuso dello strumento processuale ove si consentisse la "parcellizzazione" della tutela processuale dell'azione extracontrattuale per i danni materiali e personali da circolazione stradale, davanti al giudice di pace ed al tribunale in ragione delle rispettive competenze per valore, quando le conseguenze dannose derivanti dal fatto illecito si siano puntualmente e definitivamente verificate.
 
Importante, in ogni caso, risulta la precisazione che l'abuso dello strumento processuale è da intendersi realizzato solo qualora le conseguenze dannose fische e materiali si siano integralmente cristallizzate.

La pronuncia in commento si pone in una linea di continuità con la nota sentenza delle SSUU n 23726 del 15 novembre 2007 con la quale si ritenne abusivo l'esercizio frazionato di un credito mediante l'incardinamento di una serie di procedimenti monitori per esigere distinte fatture.
 
Nella pronuncia delle SSUU, tuttavia, stante la limitatezza dell'oggetto di ricorso, dalla ritenuta abusività dell'esercizio del credito la Corte aveva fatto scaturire conseguenze solo in punto spese.
 
Con la pronuncia in commento, invece, dall'uso strumentale del processo mediante la parcellizzazione delle azioni la Corte ha fatto conseguire l'inammissibilità della seconda azione.


Cassazione civile  sez. III 22 dicembre 2011  n. 28286


In tema di risarcimento dei danni da responsabilità civile, non è consentito al danneggiato, in presenza di un danno derivante da un unico fatto illecito, riferito alle cose ed alla persona, già verificatosi nella sua completezza, di frazionare la tutela giurisdizionale mediante la proposizione di distinte domande, parcellizzando l'azione extracontrattuale davanti al giudice di pace ed al tribunale in ragione delle rispettive competenze per valore, e ciò neppure mediante riserva di far valere ulteriori e diverse voci di danno in altro procedimento, in quanto tale disarticolazione dell'unitario rapporto sostanziale nascente dallo stesso fatto illecito, oltre ad essere lesiva del generale dovere di correttezza e buona fede, per l'aggravamento della posizione del danneggiante-debitore, si risolve anche in un abuso dello strumento processuale. (Nella specie, in applicazione dell'enunciato principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che aveva ritenuto improponibile la domanda di risarcimento dei danni alla persona subiti dall'attore in occasione di un sinistro stradale, nel quale lo stesso aveva subito altresì danni materiali, oggetto di separato giudizio concluso con sentenza passato in giudicato).



MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso è stato proposto per impugnare una sentenza pubblicata una volta entrato in vigore il D.Lgs. 15 febbraio 2006, n. 40, recante modifiche al codice di procedura civile in materia di ricorso per cassazione; con l'applicazione, quindi, delle disposizioni dettate nello stesso decreto al Capo 1^.
I motivi rispettano i requisiti richiesti dall'art. 366 bis c.p.c..
Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2043 c.c. in relazione all'art. 1181 c.c., art. 1175 c.c., art. 539 c.p.p., art. 211 c.p.c. e art. 278 c.p.c., con riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 3.
Il motivo non è fondato.
Diversamente da quel che sembra ritenere l'odierno ricorrente, infatti, i principi di buona fede e di correttezza, per la loro ormai acquisita costituzionalizzazione in rapporto all'inderogabile dovere di solidarietà di cui all'art. 2 Cost., costituiscono un canone oggettivo ed una clausola generale che non attiene soltanto al rapporto obbligatorio e contrattuale, ma che si pone come limite all'agire processuale nei suoi diversi profili. Il criterio della buona fede costituisce, quindi, strumento, per il giudice, atto a controllare, non solo lo statuto negoziale nelle sue varie fasi, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi, ma anche a prevenire forme di abuso della tutela giurisdizionale latamente considerata, indipendentemente dalla tipologia della domanda concretamente azionata (v. ad es. Cass. 3.12.2008 n. 28719; Cass. 11.6.2008 n. 15476).
Che è ciò che si verificherebbe con il consentire la "parcellizzazione" della tutela processuale dell'azione extracontrattuale per i danni materiali e personali da circolazione stradale, davanti al giudice di pace ed al tribunale in ragione delle rispettive competenze per valore, quando le conseguenze dannose derivanti dal fatto illecito si siano puntualmente e definitivamente verificate.
Anche in questo caso, infatti, esiste una controparte (il danneggiante) i cui interessi meritano una equilibrata tutela, senza consentirne alterazioni ad opera del danneggiato-creditore, con il prolungamento ed i costi ulteriori di una inutile duplicazione dell'azione processuale per i danni conseguenti ad unico fatto illecito.
Ed allora, una tale disarticolazione dell'unico rapporto sostanziale nascente dallo stesso fatto illecito, oltre ad essere lesiva del generale dovere di correttezza e buona fede, con l'aggravamento della posizione del danneggiante-debitore, per essere attuata con ed attraverso il processo, si risolve anche in un abuso dello strumento processuale.
Con la violazione anche della finalità deflattiva insita nella norma costituzionale dell'art. Ili per il paradosso esistente tra la moltiplicazione dei processi e la possibile limitazione della relativa durata.
Del resto, in tema di rapporto tra giudizi pendenti davanti al giudice di pace ed al tribunale, il principio della necessaria unicità del giudizio davanti al tribunale è, dall'art. 40 c.p.c., u.c., proclamato in modo espresso, anche per le domande solo connesse tra loro.
Nel caso in esame, i criteri identificativi della domanda erano gli stessi, il rapporto era identico, il fatto illecito generatore del danno era unico e le sue conseguenze dannose si erano definitivamente verificate, sia in rapporto alle conseguenze materiali, sia a quelle personali, delle quali l'originario attore chiedeva il risarcimento.
Emerge, infatti, dagli atti che, al momento della proposizione della domanda davanti al primo giudice, l'odierno ricorrente fosse pienamente conscio anche dei danni personali conseguenti al fatto illecito (consolidamento dei postumi invalidanti - invalidità riconosciuta dall'INAIL).
In tale situazione, alla luce delle considerazioni che precedono, non è giustificabile la disarticolazione della tutela giurisdizionale richiesta mediante la proposizione di distinte domande, privilegiando la scelta del giudice di pace secondo la sua corretta individuazione per valore.
E ciò, neppure con la riserva di far valere ulteriori e diverse "voci di danno" in altro procedimento, che l'attuale ricorrente aveva inserito nella domanda proposta con il primo giudizio.
La strumentalità di una tale condotta frazionata è - come già detto - evidente, ma non è consentita dall'ordinamento che le rifiuta protezione per la violazione di precetti costituzionali e valori costituzionalizzati, concretizzandosi, in questo caso, la proposizione della seconda domanda, in un abuso della tutela processuale, ostativa al suo esame.
Nè, in questo caso, può invocarsi, in senso contrario, il principio seguito dalla giurisprudenza della corte di cassazione, per il quale la riserva di far valere ulteriori danni in un autonomo giudizio, sia consentita (ad es. Cass. 30.10.2006 n. 23342; ma v. anche Cass. 22.8.2007 n. 17873; cass. 7.12.2004 n. 22987).
Per le caratteristiche del caso in esame - in cui il danno derivante dall'unico fatto illecito riferito alle cose ed alla persona si era già verificato nella sua completezza -, il consentire un uso parcellizzato della tutela processuale colliderebbe con i principi ricordati, nel mutato, ed attuale, assetto dei valori costituzionali, cui deve necessariamente ispirarsi anche il processo civile.
Correttamente, pertanto, il giudice del merito ha, sotto questo profilo, rigettato la domanda.
Con il secondo motivo si denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 11 disp. gen. (R.D. 16 marzo 1942, n. 262), art. 25 Cost., comma 2, e art. 5 c.p.c..
Anche questo motivo non è fondato.
Il ricorrente sostiene l'erroneità della sentenza impugnata, per avere rigettato l'appello sul presupposto della improponibilità della domanda, ricavata da una mutata interpretazione di principi giuridici, con effetto retroattivo: la domanda, infatti, al momento in cui era stata proposta (anno 2004), era pienamente legittima alla stregua della giurisprudenza delle Sezioni Unite.
La tesi non può essere seguita.
Il "giusto processo" espresso dalla norma dell'art. 111 Cost., come riformato con la legge costituzionale 23.11.1999 n. 2, sulla scia dei principi enunciati dalla Convenzione Europea dei diritti dell'uomo (art. 6), è principio che nella giurisprudenza della Corte di cassazione, dopo la sua emersione, ha subito una maturazione interpretativa.
Le linee che si sono così delineate sono state caratterizzate dal legame inscindibile che ha legato la "giustezza" del processo alla meritorietà della tutela giurisdizionale della situazione fatta valere dall'interessato e delle sue modalità di attuazione; di modo che una condotta che si fosse caratterizzata per l'uso strumentale del processo non avrebbe potuto trovare tutela nell'ordinamento (v.
ad es. Cass. 10.10.2011 n. 20798; Cass. 10.5.2010; Cass. Ord. 3.5.2010 n. 10634; Cass. Ord. 5.2.2011 n. 2799; S.U. 14.1.2009 n. 553; Cass. 3.12.2008 n. 28719; Cass. 11.6.2008 n. 15476).
Ora, è opportuno sottolineare che il precedente delle Sezioni Unite richiamato a proprio favore dal ricorrente (S.U. 10.4.2000 n. 108) - che consentiva il frazionamento della domanda relativa ad unico rapporto obbligatorio - era stato emesso in sede di risoluzione di contrasto fra le sezioni semplici, segno questo della non univocità, nel tempo, di una tale l'interpretazione giurisprudenziale.
Ma quel che più conta è che il concetto di giusto processo, con la riforma costituzionale dell'art. 111 (anno 1999), ancora non aveva subito - per la sua recente introduzione rispetto al momento della pronuncia delle sezioni unite richiamata (2000) - quella maturazione di interpretazione conclusasi con il definitivo approdo del 2007 (S.U. 15.11.2007 n. 23726).
In sostanza, ciò che si vuoi dire è che la meritorietà della tutela, nella interpretazione della Corte di cassazione, si è evoluta fino ad acquisire un ruolo determinante come ratio decidendi della controversia; nel senso che non può essere accordata protezione ad una pretesa priva di meritorietà.
Non coglie nel segno, pertanto, il riferimento, cui fa cenno il ricorrente in memoria, circa il concetto di overruling (con la cit.
Cass. 17.6.2010 n. 14627), anche perchè la rimessione in termini disposta dalla Corte, - a fronte di una possibile pronuncia di inammissibilità e di improcedibilita - , in quel caso, conseguiva ad una preclusione all'esame dell'atto di impugnazione - derivante da un mutamento di orientamento interpretativo - ; preclusione non prevista al momento del deposito dell'atto.
Nè gli ulteriori precedenti in tema (Cass. ord. interl. 4.11.2011 n. 98; Cass. ord. interl. 8.6.2011 n. 12515; Cass. ord. 26.7.2011 n. 16365) sono rilevanti ai fini che qui interessano, perchè si riferiscono alle attività necessarie alla proposizione del ricorso per cassazione, e, più in generale, a norme processuali relative al giudizio di legittimità, o a norme regolanti il processo, implicanti un vizio di inammissibilità od improcedibilità dell'impugnazione.
Ma il tema dell'overruling è stato oggetto di esame anche da parte delle Sezioni Unite di questa Corte di legittimità (S.U. 11.7.2011 n. 15144) la quale - con riferimento al tema qui in discussione - ha sancito che il mutamento della propria precedente interpretazione della norma processuale da parte del giudice della nomofilachia (c.d.
overruling), il quale porti a ritenere esistente, in danno di una parte del giudizio, una decadenza od una preclusione prima escluse, opera - laddove il significato che essa esibisce non trovi origine nelle dinamiche evolutive interne al sistema ordinamentale - come interpretazione correttiva che si salda alla relativa disposizione di legge processuale ora per allora; nel senso di rendere irrituale l'atto compiuto od il comportamento tenuto dalla parte in base all'orientamento precedente.
Ora, qui non si tratta di impedire ex post l'esercizio di una tutela di cui l'ordinamento continua a ritenere la parte meritevole, quanto di non più consentire di utilizzare, per l'accesso alla tutela giudiziaria, metodi divenuti incompatibili con valori avvertiti come preminenti ai fini di un efficace ed equo funzionamento del servizio della giustizia.
Conclusivamente, il ricorso è rigettato.
La peculiarità delle questioni trattate giustifica la compensazione delle spese fra le parti.

P.Q.M.
 
La Corte rigetta il ricorso. Compensa spese.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 28 ottobre 2011.
Depositato in Cancelleria il 22 dicembre 2011
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