La Suprema Corte ha avuto modo recentemente di occuparsi del contratto di apertura di credito bancario nell'ambito di un giudizio avente ad oggetto la domanda di revocatoria, ex art. 67 comma 2 L.Fall., svolta dalla Curatela Fallimentare nei confronti di una banca in ordine alle rimesse effettuate dalla cliente della Fallita sul conto corrente intrattenuto dalla fallita presso la banca.
Secondo la Suprema Corte ove tra il cliente e la banca sia concluso un contratto di apertura di credito senza che i successivi versamenti possano essere riutilizzati dal cliente, il contratto stesso è solo apparente in quanto, in tale caso, lo scopo non è quello tipico dell'apertura di credito di mantenere una determinata somma a disposizione del cliente ma quello di consentire alla banca di recuperare il credito nei confronti del cliente senza incorrere nel rischio della revocatoria.
In presenza di un reale contratto di apertura di credito bancario, infatti, i versamenti effettuati dal cliente nei limiti dell'apertura di credito non hanno natura solutoria e non sono revocabili ma debbono poter essere riutilizzati dal cliente ab libitum entro il termine di durata del contratto mentre, in caso di apertura di credito apparente, i versamenti effettuati dal cliente risultano di natura solutoria e non ripristinatoria della provvista (tant'è che non possono essere successvamente riutilizzati). Ne consegue che detti versamenti sono suscettibili di aggressione in revocatoria fallimentare.
Cass Civ Sez I, 11 novembre 2010, n 22915
Il cotratto di apertura di credito, concluso da un imprenditore che si trovi in una situazione di difficoltà economica e senza che i successivi versamenti possano essere riutilizzati dal cliente, è soltanto apparente in quanto privo di causa, essendo posta in essere unnattività negoziale cui non corrisponde il regolamento di interessi tipico di detto contratto, al fine di consentire alla banca di recuperare i crediti; conseguentemente i relativi versamenti sono da ritenersi solutori e non ripristinatori della provvista, e come tali assoggettabili all'azione revocatoria a norma dell'art. 67, comma 2, l. fall.
In data (OMISSIS) veniva dichiarato il fallimento della Centratele s.r.l..
Con citazione notificata il 17.5.1990 la curatela di detto fallimento conveniva dinanzi al Tribunale di Prato la Cassa di Risparmi e Depositi di Prato chiedendo revocarsi, ai sensi della L. Fall., art. 67, comma 2, tutte le rimesse affluite nell'anno antecedente alla dichiarazione di fallimento sul conto corrente intrattenuto dalla fallita presso la banca suddetta ed ammontanti a L. 1.963.028.072.
La Cassa convenuta, cui subentrava per fusione la banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., si opponeva alla domanda, contestando che le circostanze addotte dalla curatela fossero sufficienti a dimostrare la conoscenza da parte della banca dello stato di insolvenza nonchè la natura solutoria delle rimesse.
11 Tribunale adito rigettava la domanda della curatela, sul rilievo che questa non aveva fornito la prova, della quale era onerata L. Fall., ex art. 67, comma 2, della conoscenza da parte della banca dello stato di insolvenza della fallita, compensando tra le parti le spese del giudizio.
Detta sentenza veniva impugnata dalla curatela fallimentare dinanzi alla Corte d'Appello di Firenze. A sua volta la banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. proponeva appello incidentale contestando la compensazione delle spese processuali. Con sentenza in data 29 aprile 2005. depositata il 30.8.2005, la Corte d'Appello, in riforma della sentenza impugnata, dichiarava inefficaci, fino all'ammontare in Euro corrispondente a L. 1.180.850.303. le rimesse affluite nel conto corrente intrattenuto dalla Centrotele s.r.l. presso la Cassa di Risparmi e Depositi di Prato, condannando la Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. al pagamento a favore della curatela fallimentare della suddetta somma in Euro corrispondente a L. 1.180.850.303, oltre agli interessi legati dalla domanda giudiziale.
Avverso detta sentenza la Banca Monte dei Paschi si Siena s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di un unico motivo. Il Fallimento Centrotele s.r.l. ha resistito con controricorso.
Con l'unico motivo di ricorso la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 67, comma 2, laddove la Corte d'Appello ha ritenuto sussistere sia il presupposto soggettivo sia quello oggettivo dell'azione revocatoria Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., e omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a un punto essenziale della controversia laddove la Corte d'Appello ha ritenuto fornita la dimostrazione della conoscenza dello stato di insolvenza della Centrotele da parte della banca attraverso presunzioni.
Deduce la ricorrente che le tre rimesse rispettivamente di L. 80,910 e 712 milioni (depurate del costo delle operazioni di sconto) effettuate dalla società Centrotele nell'anno antecedente la dichiarazione di fallimento sul conto corrente da questa intrattenuto presso la Cassa di Risparmio di Prato, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte d'Appello, non avrebbero carattere solutorio e pertanto non sarebbero revocabili. Tali rimesse, essendo il conto assistito da fido, avevano soltanto la funzione di ripristino della provvista.
Risulta infatti, secondo la ricorrente, dai documenti prodotti in giudizio che la banca, dopo la revoca degli affidamenti del 19.10.1987, disposta a seguito della revoca della fideiussione prestata da parte dei soci T.D. e B. G., effettuata in conseguenza della cessione delle loro quote sociali, ritenendo la Centrotele ciò nonostante degna di fiducia, passò da affidamenti generalizzati ad affidamenti specifici e con delibera del Comitato di Gestione del 14.4.1988 concesse alla Centrotele tre linee di credito per gli importi di L. 80.000.000, L..
910.000.000 e L. 712.000.000, corrispondenti agli importi dei titoli negoziati.
Siccome, secondo il consolidato indirizzo della Corte di Cassazione, il carattere solutorio di ogni singola rimessa va determinato tenendo conto della soglia di disponibilità ragguagliata al limite del fido, detti accrediti transitati sul conto nei limiti del fido non potrebbero essere revocati.
Deduce altresì la ricorrente che i fatti (sospensione dei fidi, conseguenti alla revoca delle fideiussioni prestate da T. e B., ritorni di insoluti, richiesta di un decreto ingiuntivo e del sequestro conservativo da parte di un creditore per grosse somme, la vendita dell'azienda) ritenuti dalla Corte d'Appello fonte di prova della conoscenza da parte della banca dello stato di insolvenza della società fallita, pur in sè considerati secondo un criterio di normalità non avrebbero affatto il significato univoco di manifestazioni esteriori di uno stato di insolvenza. Inoltre anche a prescindere dal significato oggettivo di tali fatti, non sarebbe stata fornita la prova che essi fossero stati conosciuti e, se conosciuti, fossero stati percepiti quali elementi rivelatori di difficoltà finanziarie dell'impresa.
Il motivo è infondato.
Detto motivo si articola su due censure: con la prima si censura la ritenuta natura solutoria delle rimesse bancarie; con la seconda la ritenuta conoscenza da parte della banca dello stato di insolvenza della società poi dichiarata fallita.
La prima censura impone innanzitutto di chiarire quale sia la causa dell'apertura di credito.
Con il contratto di apertura di credito bancario la banca si obbliga a tenere a disposizione dell'altra parte una somma di danaro per un dato periodo di tempo o a tempo determinato (art. 1842 c.c.);
l'accreditato, se non è convenuto altrimenti, può utilizzare in più volte il credito e può con successivi versamenti ripristinare la sua disponibilità.
Se tra un cliente imprenditore, che si trovi in una situazione di difficoltà economica, e la banca viene concluso un contratto di apertura di credito senza che i successivi versamenti possano essere riutilizzati dal cliente, il contratto di apertura di credito è soltanto apparente, atteso che, in tal modo, viene posta in essere una attività negoziale, cui non corrisponde il regolamento di interessi tipico di detto contratto, ma un diverso regolamento di interessi.
Lo scopo in tal caso non è quello di mantenere una determinata somma e per un dato periodo di tempo a disposizione del cliente, ma di consentire alla banca di recuperare i crediti nei confronti del cliente, senza che i versamenti effettuati da questi, nei limiti dell'apertura di credito, possano essere ritenuti di natura solutoria e come tali fatti oggetto di azione revocatoria.
E' evidente che in tal caso la mancanza della causa tipica - il tenere una somma di danaro a disposizione del cliente costituisce un elemento essenziale della causa del contratto di apertura di credito - impone di ritenere detti versamenti solutori e non ripristinatori della provvista.
Una simile vicenda si è verificata nel caso di specie. Risulta dalla sentenza impugnata, che la Banca ricorrente verso la fine di settembre 1987 revocò gli affidamenti concessi alla Centrotele, invitandola nel contempo ad eliminare il pesante scoperto; che fin dall'ottobre 1987 detta società ebbe a cessare ogni attività; che nel marzo 1988 ebbe anche a vendere il proprio stabilimento, unico bene di suo proprietà; che dopo la vendita dello stabilimento e quando la società non era, quindi, più operativa, la banca aveva, con delibera del comitato di gestione del 1988, accordato alla società ulteriori linee di credito corrispondenti all'importo di tre cambiali cedute alla banca, che la Centratele aveva avuto in pagamento dello stabilimento da parre della acquirente Superili s.r.l., rispettivamente dell'importo di L. 80, 910, 712 milioni. Il giudice a quo ha affermato che la concessione di dette linee di credito era strumentalmente diretta esclusivamente a scongiurare la revocabilità dei versamenti, in quanto avrebbero dovuto ritenersi ripristinatori della provvista, perchè effettuati dentro la scopertura autorizzata; che può ritenersi ripristinatore della provvista il versamento di somme che il cliente può tornare ad utilizzare a suo piacimento, ma non di quelle che, come nel caso di specie, vanno a senso unico per essere incassate in via definitiva dalla banca ad estinzione del suo credito; che le tre rimesse di cui sopra servivano esclusivamente a decurtare il rilevante passivo della società verso la banca e non a ricostituire la provvista; che le suddette linee di credito erano, quindi, apparenti, in quanto servite esclusivamente a consentire lo sconto delle cambiali rilasciate dalla Superfil a pagamento del prezzo di acquisto dello stabilimento.
Tale motivazione non è stata censurata dalla banca ricorrente che assume nel ricorso che, per il solo fatto della esistenza delle tre linee di credito concesse alla Centrotele, corrispondenti agli importi dei titoli negoziati, le rimesse in questione non avrebbero natura di pagamento, ma di ripristino della provvista.
Nulla dice la ricorrente per confutare la ritenuta apparenza delle concesse linee di credito e, quindi, il ritenuto conseguente carattere solutorio delle rimesse, non potendosi queste ritenere effettuate nell'ambito di una scopertura effettivamente autorizzata.
Anche la seconda censura attinente alla conoscenza dello stato di insolvenza non ha pregio.
La ricorrente sostiene che lo stato di insolvenza sarebbe stato ritenuto sulla base di fatti, quali l'esistenza di un decreto ingiuntivo ed il sequestro ottenuto da un creditore di grosse somme, che non potevano considerarsi noti alla banca.
Il collegio osserva che il giudice a quo ha dedotto la conoscenza da parte della banca dello stato di insolvenza della società da fatti intervenuti nell'ambito dei rapporti con la società e, quindi, direttamente conosciuti dalla banca, mentre gli elementi che la ricorrente ritiene non conosciuti sono stati considerati dal giudice a quo solamente come "sintomi aggiuntivi che confermano l'evoluzione negativa della situazione, sfociata infine nel fallimento".
Anche con riferimento all'elemento soggettivo della revocatoria la sentenza impugnata appare pertanto adeguatamente motivata ed immune da errori logico - giuridici.
Per le considerazioni che precedono il ricorso deve essere respinto e la ricorrente condannata a rimborsare al Fallimento resistente le spese del giudizio di cassazione, che appare giusto liquidare in complessivi Euro 8.200,00 (ottomiladuecento), di cui Euro 8000,00 per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 8.200,00 (ottomiladuecento), di cui Euro 8:000,00 per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 5 ottobre 2010.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2010
Secondo la Suprema Corte ove tra il cliente e la banca sia concluso un contratto di apertura di credito senza che i successivi versamenti possano essere riutilizzati dal cliente, il contratto stesso è solo apparente in quanto, in tale caso, lo scopo non è quello tipico dell'apertura di credito di mantenere una determinata somma a disposizione del cliente ma quello di consentire alla banca di recuperare il credito nei confronti del cliente senza incorrere nel rischio della revocatoria.
In presenza di un reale contratto di apertura di credito bancario, infatti, i versamenti effettuati dal cliente nei limiti dell'apertura di credito non hanno natura solutoria e non sono revocabili ma debbono poter essere riutilizzati dal cliente ab libitum entro il termine di durata del contratto mentre, in caso di apertura di credito apparente, i versamenti effettuati dal cliente risultano di natura solutoria e non ripristinatoria della provvista (tant'è che non possono essere successvamente riutilizzati). Ne consegue che detti versamenti sono suscettibili di aggressione in revocatoria fallimentare.
Cass Civ Sez I, 11 novembre 2010, n 22915
Il cotratto di apertura di credito, concluso da un imprenditore che si trovi in una situazione di difficoltà economica e senza che i successivi versamenti possano essere riutilizzati dal cliente, è soltanto apparente in quanto privo di causa, essendo posta in essere unnattività negoziale cui non corrisponde il regolamento di interessi tipico di detto contratto, al fine di consentire alla banca di recuperare i crediti; conseguentemente i relativi versamenti sono da ritenersi solutori e non ripristinatori della provvista, e come tali assoggettabili all'azione revocatoria a norma dell'art. 67, comma 2, l. fall.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
In data (OMISSIS) veniva dichiarato il fallimento della Centratele s.r.l..
Con citazione notificata il 17.5.1990 la curatela di detto fallimento conveniva dinanzi al Tribunale di Prato la Cassa di Risparmi e Depositi di Prato chiedendo revocarsi, ai sensi della L. Fall., art. 67, comma 2, tutte le rimesse affluite nell'anno antecedente alla dichiarazione di fallimento sul conto corrente intrattenuto dalla fallita presso la banca suddetta ed ammontanti a L. 1.963.028.072.
La Cassa convenuta, cui subentrava per fusione la banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., si opponeva alla domanda, contestando che le circostanze addotte dalla curatela fossero sufficienti a dimostrare la conoscenza da parte della banca dello stato di insolvenza nonchè la natura solutoria delle rimesse.
11 Tribunale adito rigettava la domanda della curatela, sul rilievo che questa non aveva fornito la prova, della quale era onerata L. Fall., ex art. 67, comma 2, della conoscenza da parte della banca dello stato di insolvenza della fallita, compensando tra le parti le spese del giudizio.
Detta sentenza veniva impugnata dalla curatela fallimentare dinanzi alla Corte d'Appello di Firenze. A sua volta la banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. proponeva appello incidentale contestando la compensazione delle spese processuali. Con sentenza in data 29 aprile 2005. depositata il 30.8.2005, la Corte d'Appello, in riforma della sentenza impugnata, dichiarava inefficaci, fino all'ammontare in Euro corrispondente a L. 1.180.850.303. le rimesse affluite nel conto corrente intrattenuto dalla Centrotele s.r.l. presso la Cassa di Risparmi e Depositi di Prato, condannando la Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. al pagamento a favore della curatela fallimentare della suddetta somma in Euro corrispondente a L. 1.180.850.303, oltre agli interessi legati dalla domanda giudiziale.
Avverso detta sentenza la Banca Monte dei Paschi si Siena s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di un unico motivo. Il Fallimento Centrotele s.r.l. ha resistito con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con l'unico motivo di ricorso la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 67, comma 2, laddove la Corte d'Appello ha ritenuto sussistere sia il presupposto soggettivo sia quello oggettivo dell'azione revocatoria Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., e omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a un punto essenziale della controversia laddove la Corte d'Appello ha ritenuto fornita la dimostrazione della conoscenza dello stato di insolvenza della Centrotele da parte della banca attraverso presunzioni.
Deduce la ricorrente che le tre rimesse rispettivamente di L. 80,910 e 712 milioni (depurate del costo delle operazioni di sconto) effettuate dalla società Centrotele nell'anno antecedente la dichiarazione di fallimento sul conto corrente da questa intrattenuto presso la Cassa di Risparmio di Prato, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte d'Appello, non avrebbero carattere solutorio e pertanto non sarebbero revocabili. Tali rimesse, essendo il conto assistito da fido, avevano soltanto la funzione di ripristino della provvista.
Risulta infatti, secondo la ricorrente, dai documenti prodotti in giudizio che la banca, dopo la revoca degli affidamenti del 19.10.1987, disposta a seguito della revoca della fideiussione prestata da parte dei soci T.D. e B. G., effettuata in conseguenza della cessione delle loro quote sociali, ritenendo la Centrotele ciò nonostante degna di fiducia, passò da affidamenti generalizzati ad affidamenti specifici e con delibera del Comitato di Gestione del 14.4.1988 concesse alla Centrotele tre linee di credito per gli importi di L. 80.000.000, L..
910.000.000 e L. 712.000.000, corrispondenti agli importi dei titoli negoziati.
Siccome, secondo il consolidato indirizzo della Corte di Cassazione, il carattere solutorio di ogni singola rimessa va determinato tenendo conto della soglia di disponibilità ragguagliata al limite del fido, detti accrediti transitati sul conto nei limiti del fido non potrebbero essere revocati.
Deduce altresì la ricorrente che i fatti (sospensione dei fidi, conseguenti alla revoca delle fideiussioni prestate da T. e B., ritorni di insoluti, richiesta di un decreto ingiuntivo e del sequestro conservativo da parte di un creditore per grosse somme, la vendita dell'azienda) ritenuti dalla Corte d'Appello fonte di prova della conoscenza da parte della banca dello stato di insolvenza della società fallita, pur in sè considerati secondo un criterio di normalità non avrebbero affatto il significato univoco di manifestazioni esteriori di uno stato di insolvenza. Inoltre anche a prescindere dal significato oggettivo di tali fatti, non sarebbe stata fornita la prova che essi fossero stati conosciuti e, se conosciuti, fossero stati percepiti quali elementi rivelatori di difficoltà finanziarie dell'impresa.
Il motivo è infondato.
Detto motivo si articola su due censure: con la prima si censura la ritenuta natura solutoria delle rimesse bancarie; con la seconda la ritenuta conoscenza da parte della banca dello stato di insolvenza della società poi dichiarata fallita.
La prima censura impone innanzitutto di chiarire quale sia la causa dell'apertura di credito.
Con il contratto di apertura di credito bancario la banca si obbliga a tenere a disposizione dell'altra parte una somma di danaro per un dato periodo di tempo o a tempo determinato (art. 1842 c.c.);
l'accreditato, se non è convenuto altrimenti, può utilizzare in più volte il credito e può con successivi versamenti ripristinare la sua disponibilità.
Se tra un cliente imprenditore, che si trovi in una situazione di difficoltà economica, e la banca viene concluso un contratto di apertura di credito senza che i successivi versamenti possano essere riutilizzati dal cliente, il contratto di apertura di credito è soltanto apparente, atteso che, in tal modo, viene posta in essere una attività negoziale, cui non corrisponde il regolamento di interessi tipico di detto contratto, ma un diverso regolamento di interessi.
Lo scopo in tal caso non è quello di mantenere una determinata somma e per un dato periodo di tempo a disposizione del cliente, ma di consentire alla banca di recuperare i crediti nei confronti del cliente, senza che i versamenti effettuati da questi, nei limiti dell'apertura di credito, possano essere ritenuti di natura solutoria e come tali fatti oggetto di azione revocatoria.
E' evidente che in tal caso la mancanza della causa tipica - il tenere una somma di danaro a disposizione del cliente costituisce un elemento essenziale della causa del contratto di apertura di credito - impone di ritenere detti versamenti solutori e non ripristinatori della provvista.
Una simile vicenda si è verificata nel caso di specie. Risulta dalla sentenza impugnata, che la Banca ricorrente verso la fine di settembre 1987 revocò gli affidamenti concessi alla Centrotele, invitandola nel contempo ad eliminare il pesante scoperto; che fin dall'ottobre 1987 detta società ebbe a cessare ogni attività; che nel marzo 1988 ebbe anche a vendere il proprio stabilimento, unico bene di suo proprietà; che dopo la vendita dello stabilimento e quando la società non era, quindi, più operativa, la banca aveva, con delibera del comitato di gestione del 1988, accordato alla società ulteriori linee di credito corrispondenti all'importo di tre cambiali cedute alla banca, che la Centratele aveva avuto in pagamento dello stabilimento da parre della acquirente Superili s.r.l., rispettivamente dell'importo di L. 80, 910, 712 milioni. Il giudice a quo ha affermato che la concessione di dette linee di credito era strumentalmente diretta esclusivamente a scongiurare la revocabilità dei versamenti, in quanto avrebbero dovuto ritenersi ripristinatori della provvista, perchè effettuati dentro la scopertura autorizzata; che può ritenersi ripristinatore della provvista il versamento di somme che il cliente può tornare ad utilizzare a suo piacimento, ma non di quelle che, come nel caso di specie, vanno a senso unico per essere incassate in via definitiva dalla banca ad estinzione del suo credito; che le tre rimesse di cui sopra servivano esclusivamente a decurtare il rilevante passivo della società verso la banca e non a ricostituire la provvista; che le suddette linee di credito erano, quindi, apparenti, in quanto servite esclusivamente a consentire lo sconto delle cambiali rilasciate dalla Superfil a pagamento del prezzo di acquisto dello stabilimento.
Tale motivazione non è stata censurata dalla banca ricorrente che assume nel ricorso che, per il solo fatto della esistenza delle tre linee di credito concesse alla Centrotele, corrispondenti agli importi dei titoli negoziati, le rimesse in questione non avrebbero natura di pagamento, ma di ripristino della provvista.
Nulla dice la ricorrente per confutare la ritenuta apparenza delle concesse linee di credito e, quindi, il ritenuto conseguente carattere solutorio delle rimesse, non potendosi queste ritenere effettuate nell'ambito di una scopertura effettivamente autorizzata.
Anche la seconda censura attinente alla conoscenza dello stato di insolvenza non ha pregio.
La ricorrente sostiene che lo stato di insolvenza sarebbe stato ritenuto sulla base di fatti, quali l'esistenza di un decreto ingiuntivo ed il sequestro ottenuto da un creditore di grosse somme, che non potevano considerarsi noti alla banca.
Il collegio osserva che il giudice a quo ha dedotto la conoscenza da parte della banca dello stato di insolvenza della società da fatti intervenuti nell'ambito dei rapporti con la società e, quindi, direttamente conosciuti dalla banca, mentre gli elementi che la ricorrente ritiene non conosciuti sono stati considerati dal giudice a quo solamente come "sintomi aggiuntivi che confermano l'evoluzione negativa della situazione, sfociata infine nel fallimento".
Anche con riferimento all'elemento soggettivo della revocatoria la sentenza impugnata appare pertanto adeguatamente motivata ed immune da errori logico - giuridici.
Per le considerazioni che precedono il ricorso deve essere respinto e la ricorrente condannata a rimborsare al Fallimento resistente le spese del giudizio di cassazione, che appare giusto liquidare in complessivi Euro 8.200,00 (ottomiladuecento), di cui Euro 8000,00 per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 8.200,00 (ottomiladuecento), di cui Euro 8:000,00 per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 5 ottobre 2010.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2010