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le scriminanti non codificate l'attività medico chirurgica
consenso informato danni e causalità commento di Adolfo di Majo Corriere Giuridico 9/2010 pagg 1204 e ss
Senza consenso informato, senza errori terapeutici, c'è responsabilità medica solo se il paziente dimostra che non avrebbe dato il consenso
Si era, infatti, avuto modo di affermare che l'intervento medico eseguito in difetto di un consenso informato fosse, di per sè, illecito e legittimasse la pretesa risarcitoria del paziente anche laddove effettuato correttamente in presenza di un danno alla salute (il principio, in particolare, era stato enunciato con riferimento alla chirurgia estetica). In tale prospettiva, si assumeva una sorta di assunzione della garanzia per tutti i rischi non atipici da parte del medico che omettesse di fornire adeguata informativa al paziente.
Con la recente pronuncia, invece, la III Sezione della Cassa Civ ha precisato che sussiste pur sempre la necessità di verificare il nesso di causalità tra l'omesso consenso informato ed il danno alla salute lamentato e, a tale fine, occorrerà la prova che, in presenza di adeguata informazione, il paziente non si sarebbe sottoposto all'intervento terapeutico. Secondo la Suprema Corte, poi, l'onere di fornire tale prova grava sul paziente a mente dei criteri di riparto ex art. 3697 cc e per il principio di vicinanza così come elaborato dalle SSUU nel 2001.
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1.- Nel febbraio del 1993 Sa.Lu. agì giudizialmente nei confronti di S.G., che il (OMISSIS) la aveva sottoposta ad intervento chirurgico per cataratta asportandole il cristallino dell'occhio destro, e ne chiese la condanna al risarcimento dei danni per le complicanze (cheratite corneale bollosa) e le lesioni che affermò esserne conseguite.
Il convenuto resistette.
Con sentenza n. 2095 del 2002 il tribunale di Napoli, in esito a due consulenze tecniche d'ufficio, rigettò la domanda. Escluse in particolare che, a seguito del trapianto di cornea cui l'attrice si era poi sottoposta altrove, fossero residuati esiti permanenti dalla cheratite insorta dopo l'intervento di asportazione della cataratta;
ritenne che lo stesso fosse necessario e che era stato eseguito correttamente, nel rispetto delle norme proprie della scienza medica;
affermò che della mancanza di "consenso informato" avrebbe dovuto dare prova la paziente e che tale prova era mancata.
2.- La corte d'appello di Napoli, decidendo con sentenza n. 242 del 2005 sul gravame della soccombente, ha riformato la sentenza sul seguente, sostanziale, testuale rilievo: "Non avendo lo S., sul quale incombeva l'onere di provare la presenza di un consenso informato (Cass., 23/2001, n. 7027) nè affermato, nè tanto meno provato, di aver informato la Sa. dei rischi prevedibili dell'intervento e di aver ricevuto il consenso di quest'ultima, va affermata - come richiesto dalla Sa. in primo grado, fin dal (OMISSIS) - la responsabilità del sanitario per i danni derivanti dall'intervento effettuato in difetto di detto consenso, nessun rilievo avendo la circostanza che l'intervento medesimo sia stato eseguito in modo corretto (Cass., 24/9/1997, n. 9374)" (pagina 6 della sentenza).
Ha poi ritenuto che "il riconoscimento della responsabilità dello S. per carenza di consenso informato comporta la condanna dello stesso al risarcimento dei danni patiti dalla Sa. per l'invalidità temporanea, per le sofferenze patite per l'insorgenza della cheratite bollosa e per le spese affrontate per il successivo trapianto corneale, necessario ad eliminare la cheratopatia"; ed ha soggiunto che "l'assenza di specifici motivi di impugnazione della sentenza del Tribunale nella parte in cui non è stata riconosciuta la persistenza di una invalidità pur dopo il trapianto di cornea, determina l'inammissibilità della richiesta di risarcimento del danno biologico e per la assunta invalidità, e per il relativo danno morale" (pagina 8 della sentenza).
Ha dunque liquidato il danno in Euro 74.040, condannando il convenuto al pagamento della predetta somma, oltre agli accessori ed alle spese del doppio grado.
3.- Avverso la sentenza ricorre per cassazione S.G., affidandosi a quattro motivi illustrati pure da memoria.
Resiste con controricorso Sa.Lu., che propone anche ricorso incidentale fondato su un unico motivo, avversato dallo S. con controricorso.
1.- I ricorsi vanno riuniti in quanto proposti avverso la stessa sentenza.
IL RICORSO PRINCIPALE (del medico).
1.1.- Il primo motivo del ricorso dello S. investe la decisione in relazione alla ripartizione dell'onere della prova in materia di consenso informato, deducendosi violazione e falsa applicazione degli artt. 1337, 2697 e 2043 c.c., per avere la corte d'appello ritenuto che la prova dell'intervenuto consenso consapevole della paziente all'intervento dovesse essere data dal medico. Si afferma che il consenso del paziente inerisce alla fase che precede il contratto di prestazione d'opera professionale: si verterebbe dunque in ipotesi di responsabilità precontrattuale che, in quanto tradizionalmente inquadrata nell'alveo della responsabilità aquiliana, è governata dalla regola secondo la quale la prova del fatto illecito deve essere data dal creditore.
1.2.- Il motivo è infondato alla luce dell'ormai definitivo approdo secondo il quale l'intervento stesso del medico, anche solo in funzione diagnostica, da comunque luogo all'instaurazione di un rapporto di tipo contrattuale. Ne consegue che, effettuata la diagnosi in esecuzione del contratto, l'illustrazione al paziente delle conseguenze (certe o incerte che siano, purchè non del tutto anomale) della terapia o dell'intervento che il medico consideri necessari o opportuni ai fini di ottenere, quante volte sia possibile, il necessario consenso del paziente all'esecuzione della prestazione terapeutica, costituisce un'obbligazione il cui adempimento deve essere provato dalla parte che l'altra affermi inadempiente, e dunque dal medico a fronte dell'allegazione di inadempimento da parte del paziente.
2.- Col secondo motivo è denunciato ogni possibile tipo di vizio della motivazione in punto di affermata prevedibilità della patologia corneale insorta dopo l'intervento chirurgico di asportazione della cataratta, affermandosi che tale prevedibilità è meramente postulata dalla corte territoriale e non supportata da argomenti idonei a contrastare le diverse conclusioni cui erano addivenuti i due consulenti tecnici.
Si sostiene, mediante riferimento ai riprodotti passi delle relazioni dei due ausiliari, che il primo aveva affermato che "non vi era alcuna controindicazione all'intervento chirurgico per cataratta con inserimento del cristallino in camera posteriore" e che "l'innesto di cui sopra, oltre ad avere indicazione, era una necessità"; e che la relazione del secondo consulente, in riferimento all'intervenuto scompenso corneale con formazione di bolle, aveva ritenuto che l'evento era "non certo prevedibile, in quanto non erano stati individuati elementi di questo prodromici", del pari concludendo nel senso della necessità dell'intervento.
2.1.- Anche questa censura è infondata.
La conclusione della corte sulla prevedibilità della cheratite bollosa sopravvenuta all'intervento è correlata all'affermazione del primo c.t.u. che la "cheratite bollosa che insorge dopo l'intervento per cataratta è divenuta oggi una malattia molto diffusa", essendo i relativi casi passati dal 2 al 21,2% del 1990 (secondo un trattato di chirurgia della cornea del 1994) ed all'ulteriore, saliente rilievo che la normale bilateralità della cornea guttata dalla quale la paziente era affetta e la circostanza che il medico non ne avesse mai attestato la presenza neanche all'occhio sinistro "benchè la stessa sia di facile accertamento ..., prevedendo un ulteriore intervento di cataratta all'occhio sinistro dopo 15 o 20 gg. da quello all'occhio destro, lascia ragionevolmente presumere che lo S., pur consapevole della presenza di cornea guttata ad entrambi gli occhi, abbia taciuto tale circostanza alla Sa., programmando un duplice intervento - ai due occhi distintamente - con tutte le cautele del caso, senza tuttavia informare la Sa. di una conseguenza più che probabile dell'intervento medesimo (vedi bibliografia allegata alla produzione di parte appellante)" (così la sentenza impugnata a pagina 7, capoverso).
La conclusione è logicamente coerente, sufficiente e niente affatto contraddittoria, non essendo univocamente sintomatica del vizio di cui all'art. 360 c.p.c., n. 5, la circostanza che altri passi delle relazioni di consulenza avrebbero potuto indurre a conclusioni diverse. Tanto, in relazione al principio secondo il quale la scelta delle risultanze probatorie cui conferire determinante rilievo e l'interpretazione del risultato di una complessa attività intellettiva, quale può essere quella demandata al c.t.u., competono al giudice del merito, che nella specie ha dato puntuale conto dei passi della relazione e delle ulteriori risultanze sui quali ha fondato il proprio convincimento.
Va soggiunto che, laddove la controricorrente Sa. prospetta che, in realtà, la seconda consulenza tecnica d'ufficio aveva concluso nel senso che la cornea guttata non era stata addirittura diagnosticata (pagina 5 del controricorso, in fine), evoca una possibilità che avrebbe potuto dar luogo ad una responsabilità da omessa diagnosi e da conseguente inadeguatezza della terapia chirurgica in concreto praticata; ma che, in difetto di censura da parte sua della motivazione della sentenza nella parte in cui il giudice del merito è addivenuto alla conclusione opposta (il ricorso incidentale concerne un profilo del tutto diverso), non è suscettibile di alcuna delibazione ulteriore, per essersi formato il giudicato sul punto.
3.- Col terzo motivo la sentenza è censurata per violazione e falsa applicazione dell'art. 1223 c.c., e segg., concernenti i criteri di determinazione dei danni risarcibili, e per vizio di motivazione su punti decisivi.
Sulla premessa che era stata acclarata l'assenza di qualsiasi profilo di colpa professionale nell'esecuzione dell'intervento chirurgico di asportazione della cataratta, il ricorrente rileva che l'avere la corte d'appello riconosciuto il risarcimento per le "lunghe sofferenze e le enormi spese" derivate alla paziente dalla cheratite bollosa conseguita all'intervento postula che l'evento di danno ascritto all'azione dell'oculista sia appunto la cheratite bollosa;
mentre, essendo stata al medico ascritta esclusivamente la violazione del suo obbligo d'informazione, non le conseguenze della lesione del diritto alla salute potevano venire in considerazione ai fini risarcitori, ma solo quelle connesse alla lesione del diverso ed autonomo diritto alla libera e consapevole autodeterminazione del paziente "sul se sottoporsi o meno all'intervento (artt. 2 e 13 Cost., art. 32 Cost., comma 2)", peraltro ritenuto necessario in relazione alle condizioni della paziente.
Per addossare al medico le conseguenze negative dell'intervento, necessario e correttamente eseguito, sarebbe occorso addivenire alla conclusione che la paziente non vi si sarebbe sottoposta se fosse stata adeguatamente informata, non potendosi altrimenti affermare la sussistenza di nesso di causalità tra la violazione (omessa informazione) e il bene giuridico che si assume leso (la salute). Ma tale indagine non era stata compiuta; se lo fosse stata - conclude il ricorrente - la indiscutibile necessità dell'intervento avrebbe univocamente indotto la corte d'appello alla conclusione che ad esso la paziente si sarebbe sottoposta quand'anche fosse stata adeguatamente informata.
3.1.- Il problema che si pone è il seguente: a) se delle conseguenze pregiudizievoli per la salute di un intervento chirurgico necessario e correttamente eseguito il medico debba rispondere per il solo fatto di non aver informato il paziente della possibilità che quelle conseguenze si verificassero;
b) o se, per dirle risarcibili, deve potersi affermare che il paziente all'intervento non si sarebbe sottoposto se fosse stato informato.
Effettivamente questa corte, con la sentenza citata nella sentenza impugnata e con numerose altre decisioni (cfr., ex plurimis, Cass., nn. 1950/1967, 1773/1981, 9705/1997 in tema di chirurgia estetica, 5444/2006), ha affermato che "la mancata richiesta del consenso costituisce autonoma fonte di responsabilità qualora dall'intervento scaturiscano effetti lesivi, o addirittura mortali, per il paziente, per cui nessun rilievo può avere il fatto che l'intervento medesimo sia stato eseguito in modo corretto" (così Cass., n. 9374/1997).
Ciò sull'implicito rilievo che, in difetto di "consenso informato" da parte del paziente, l'intervento terapeutico costituisce un illecito, sicchè il medico risponde delle conseguenze negative che ne siano derivate quand'anche abbia correttamente eseguito quella prestazione.
Non risulta però scrutinato ex professo il problema specifico che ora si pone: se cioè, perchè il medico risponda del danno alla salute, occorre che sussista nesso causale tra mancata acquisizione di consenso consapevole e quel tipo di pregiudizio. Nè tanto meno, ovviamente, è stato mai affermato che dal nesso causale possa prescindersi (anzi, vi è stato fatto esplicito riferimento da numerose altre decisioni, fra le quali Cass., n. 14638/2004 e, da ultimo, Cass., n. 10741/2009).
Ora, la sussistenza di nesso eziologico non va indagata solo in relazione al rapporto di consequenzialità tra intervento terapeutico (necessario e correttamente eseguito) e pregiudizio della salute, che è addirittura scontato e che costituisce il presupposto stesso del problema che s'è sopra sintetizzato, il quale neppure sorgerebbe se il pregiudizio della salute non fosse conseguenza dell'intervento. La sussistenza di quel nesso va verificata in relazione al rapporto tra attività omissiva del medico per non aver informato il paziente ed esecuzione dell'intervento.
La riduzione del problema al rilievo che, essendo illecita l'attività medica espletata senza consenso, per ciò stesso il medico debba rispondere delle conseguenze negative subite dal paziente che il consenso informato non abbia prestato, costituirebbe una semplificazione priva del necessario riguardo all'unitarietà del rapporto ed al reale atteggiarsi della questione, la quale non attiene tanto alla liceità dell'intervento del medico (che è solo una qualificazione successiva), ma che nasce dalla violazione del diritto all'autodeterminazione del paziente, essendo al medico anzitutto imputabile di non averlo adeguatamente informato per acquisirne il preventivo, consapevole consenso. Che, se lo avesse fatto ed all'esecuzione dell'intervento (con le modalità rappresentategli) il paziente avesse in ipotesi acconsentito, sarebbe palese l'insussistenza di nesso di causalità materiale tra il comportamento omissivo del medico e la lesione della salute del paziente, perchè quella lesione egli avrebbe in ogni caso subito.
Rispetto alle conseguenze su tale piano pregiudizievoli occorre allora domandarsi, come in ogni valutazione controfattuale ipotetica, se la condotta omessa avrebbe evitato l'evento ove fosse stata tenuta: se, cioè, l'adempimento da parte del medico dei suoi doveri informativi avrebbe prodotto l'effetto della non esecuzione dell'intervento chirurgico dal quale, senza colpa di alcuno, lo stato patologico è poi derivato. E poichè l'intervento chirurgico non sarebbe stato eseguito solo se il paziente lo avesse rifiutato, per ravvisare la sussistenza di nesso causale tra lesione del diritto all'autodeterminazione del paziente (realizzatosi mediante l'omessa informazione da parte del medico) e lesione della salute per le, pure incolpevoli, conseguenze negative dell'intervento (tuttavia non anomale in relazione allo sviluppo del processo causale: Cass., n. 14638/2004), deve potersi affermare che il paziente avrebbe rifiutato l'intervento ove fosse stato compiutamente informato, giacchè altrimenti la condotta positiva omessa dal medico (informazione, ai fini dell'acquisizione di un consapevole consenso) non avrebbe comunque evitato l'evento (lesione della salute).
Tra le due sopra prospettate, la soluzione corretta in diritto è dunque la seconda.
3.2.- Il diritto all'autodeterminazione è, del resto, diverso dal diritto alla salute (Cass., n. 10741/2009 e Cass., n. 18513/2007, che ha qualificato come mutamento della causa petendi il porre a fondamento dell'azione di risarcimento danni conseguenti ad intervento chirurgico il difetto di consenso informato, dopo aver fondato tale azione sulla colpa professionale).
Esso rappresenta, ad un tempo, una forma di rispetto per la libertà dell'individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi, che si sostanzia non solo nella facoltà di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma altresì di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, atteso il principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in sè e ne sancisce il rispetto in qualsiasi momento della sua vita e nell'integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive (Cass., n. 21748/2007). Secondo la definizione della Corte costituzionale (sentenza n. 438 del 2008, sub. n. 4 del "Considerato in diritto") il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell'art. 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 Cost., i quali stabiliscono rispettivamente che "la libertà personale è inviolabile" e che "nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge".
Afferma ancora la Consulta che numerose norme internazionali (che è qui superfluo richiamare ancora una volta) prevedono esplicitamente la necessità del consenso informato del paziente nell'ambito dei trattamenti medici. La diversità tra i due diritti è resa assolutamente palese dalle elementari considerazioni che, pur sussistendo il consenso consapevole, ben può configurarsi responsabilità da lesione della salute se la prestazione terapeutica sia tuttavia inadeguatamente eseguita; e che la lesione del diritto all'autodeterminazione non necessariamente comporta la lesione della salute, come accade quando manchi il consenso ma l'intervento terapeutico sortisca un esito assolutamente positivo (è la fattispecie cui ha avuto riguardo Cass. pen., sez. un., n. 2437 del 2009, concludendo per l'inconfigurabilità del delitto di violenza privata).
Nel primo caso il consenso prestato dal paziente è irrilevante, poichè la lesione della salute si ricollega causalmente alla colposa condotta del medico nell'esecuzione della prestazione terapeutica, inesattamente adempiuta dopo la diagnosi.
Nel secondo, la mancanza di consenso può assumere rilievo a fini risarcitori, benchè non sussista lesione della salute (cfr. Cass., nn. 2468/2009) o se la lesione della salute non sia causalmente collegabile alla lesione di quel diritto, quante volte siano configurabili conseguenze pregiudizievoli (di apprezzabile gravità, se integranti un danno non patrimoniale) che siano derivate dalla violazione del diritto fondamentale all'autodeterminazione in se stesso considerato (cfr., con riguardo al caso di danno patrimoniale e non patrimoniale da omessa diagnosi di feto malformato e di conseguente pregiudizio della possibilità per la madre di determinarsi a ricorrere all'interruzione volontaria della gravidanza, la recentissima Cass., n. 13 del 2010 e le ulteriori sentenze ivi richiamate).
Viene anzitutto in rilievo il caso in cui alla prestazione terapeutica conseguano pregiudizi che il paziente avrebbe alternativamente preferito sopportare nell'ambito di scelte che solo a lui è dato di compere. Non sarebbe utile a contrastare tale conclusione il riferimento alla prevalenza del bene "vita" o del bene "salute" rispetto ad altri possibili interessi, giacchè una valutazione comparativa degli interessi assume rilievo nell'ambito del diritto quando soggetti diversi siano titolari di interessi configgenti e sia dunque necessario, in funzione del raggiungimento del fine perseguito, stabilire quale debba prevalere e quale debba rispettivamente recedere o comunque rimanere privo di tutela; un "conflitto" regolabile ab externo è, invece, escluso in radice dalla titolarità di pur contrastanti interessi in capo allo stesso soggetto, al quale soltanto, se capace, compete la scelta di quale tutelare e quale sacrificare.
Così, a titolo meramente esemplificativo, non potrebbe a priori negarsi tutela risarcitoria a chi abbia consapevolmente rifiutato una trasfusione di sangue perchè in contrasto con la propria fede religiosa (al caso dei Testimoni di Geova si sono riferite, con soluzioni sostanzialmente opposte, Cass., nn. 23676/2008 e 4211/2007), quand'anche gli si sia salvata la vita praticandogliela, giacchè egli potrebbe aver preferito non vivere, piuttosto che vivere nello stato determinatosi; così, ancora, non potrebbe in assoluto escludersi la risarcibilità del danno non patrimoniale da acuto o cronico dolore fisico (sul punto cfr. Cass., n. 23846/2008) nel caso in cui la scelta del medico di privilegiare la tutela dell'integrità fisica del paziente o della sua stessa vita, ma a prezzo di sofferenze fisiche che il paziente avrebbe potuto scegliere di non sopportare, sia stata effettuata senza il suo consenso, da acquisire in esito alla rappresentazione più puntuale possibile del dolore prevedibile, col bilanciamento reso necessario dall'esigenza che esso sìa prospettato con modalità idonee a non ingenerare un aprioristico rifiuto dell'atto terapeutico, chirurgico o farmacologico. E nello stesso ambito dovrebbe inquadrarsi il diritto al risarcimento per la lesione derivata da un atto terapeutico che abbia salvaguardato la salute in un campo a discapito di un secondario pregiudizio sotto altro pure apprezzabile aspetto, che non sia stato tuttavia adeguatamente prospettato in funzione di una scelta consapevole del paziente, che la avrebbe in ipotesi compiuta in senso difforme da quello privilegiato dal medico.
Viene, in secondo luogo, in rilievo la considerazione del turbamento e della sofferenza che deriva al paziente sottoposto ad atto terapeutico dal verificarsi di conseguenze del tutto inaspettate perchè non prospettate e, anche per questo, più difficilmente accettate. L'informazione cui il medico è tenuto in vista dell'espressione del consenso del paziente vale anche, ove il consenso sia prestato, a determinare nel paziente l'accettazione di quel che di non gradito può avvenire, in una sorta di condivisione della stessa speranza del medico che tutto vada bene; e che non si verifichi quanto di male potrebbe capitare, perchè inevitabile. Il paziente che sia stato messo in questa condizione - la quale integra un momento saliente della necessaria "alleanza terapeutica" col medico - accetta preventivamente l'esito sgradevole e, se questo si verifica, avrà anche una minore propensione ad incolpare il medico.
Se tuttavia lo facesse, il medico non sarebbe tenuto a risarcirgli alcun danno sotto l'aspetto del difetto di informazione (salva la sua possibile responsabilità per avere, per qualunque ragione, mal diagnosticato o mal suggerito o male operato; ma si tratterebbe - come si è già chiarito - di un aspetto del tutto diverso, implicante una "colpa" collegata all'esecuzione della prestazione successiva).
Ma se il paziente non sia stato convenientemente informato, quella condizione di spirito è inevitabilmente destinata a realizzarsi, ingenerando manifestazioni di turbamento di intensità ovviamente correlata alla gravità delle conseguente verificatesi e non prospettate come possibili. Ed è appunto questo il danno non patrimoniale che, nella prevalenza dei casi, costituisce l'effetto del mancato rispetto dell'obbligo di informare il paziente.
Condizione di risarcibilità di tale tipo di danno non patrimoniale è che esso varchi la soglia della gravità dell'offesa secondo i canoni delineati dalle sentenze delle Sezioni unite nn. da 26972 a 26974 del 2008, con le quali s'è stabilito che il diritto deve essere inciso oltre un certo livello minimo di tollerabilità, da determinarsi dal giudice nel bilanciamento tra principio di solidarietà e di tolleranza secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico. Non pare possibile offrire più specifiche indicazioni.
Anche in caso di sola violazione del diritto all'autodeterminazione, pur senza correlativa lesione del diritto alla salute ricollegabile a quella violazione per essere stato l'intervento terapeutico necessario e correttamente eseguito, può dunque sussistere uno spazio risarcitorio; mentre la risarcibilità del danno da lesione della salute che si verifichi per le non imprevedibili conseguenze dell'atto terapeutico necessario e correttamente eseguito secundum legem artis, ma tuttavia effettuato senza la preventiva informazione del paziente circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli e dunque senza un consenso consapevolmente prestato, necessariamente presuppone l'accertamento che il paziente quel determinato intervento avrebbe rifiutato se fosse stato adeguatamente informato.
3.3.- Il relativo onere probatorio, suscettibile di essere soddisfatto anche mediante presunzioni, grava sul paziente: (a) perchè la prova di nesso causale tra inadempimento e danno comunque compete alla parte che alleghi l'inadempimento altrui e pretenda per questo il risarcimento; (b) perchè il fatto positivo da provare è il rifiuto che sarebbe stato opposto dal paziente al medico; (c) perchè si tratta pur sempre di stabilire in quale senso si sarebbe orientata la scelta soggettiva del paziente, sicchè anche il criterio di distribuzione dell'onere probatorio in funzione della "vicinanza" al fatto da provare induce alla medesima conclusione; (d) perchè il discostamento della scelta del paziente dalla valutazione di opportunità del medico costituisce un'eventualità che non corrisponde all'id quod plerumque accidit.
3.4.- Se, nella specie, l'intervento sarebbe stato rifiutato dalla paziente ove il medico le avesse puntualmente rappresentato le sue possibili conseguenze è scrutinio che la corte d'appello ha del tutto omesso; e questo perchè è incorsa nell'illustrato errore di diritto laddove ha ritenuto che della lesione della salute il medico dovesse rispondere per il solo difetto di un consenso consapevolmente prestato (che è locuzione più propria di quella corrente, giacchè "informato" non è il consenso, ma deve esserlo il paziente che lo presta).
Il motivo è conclusivamente fondato nella parte in cui è prospettata violazione di legge. Non anche nella parte in cui è denunciato vizio della motivazione, essendo stato l'apprezzamento di fatto sulle ipotetiche determinazioni della paziente precluso dalla assorbente (benchè erronea) soluzione in diritto adottata.
4.- Col quarto motivo (erroneamente indicato anch'esso come terzo a pagina 19 del ricorso) è dedotta violazione e falsa applicazione dell'art. 185 c.p. e art. 1223 c.c., e segg., in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, nella parte in cui la corte d'appello ha liquidato, in aggiunta alle altre voci di danno (biologico da invalidità temporanea e patrimoniale), anche "il danno morale, tenuto conto delle sofferenze patite a seguito dell'insorgenza della cheratite bollosa e del successivo intervento chirurgico".
Si afferma, sotto un primo profilo, che il danno morale soggettivo può essere riconosciuto solo in presenza di una figura di reato, nella specie insussistente. E si sostiene, sotto altro profilo, che l'assenza di nesso causale tra violazione del dovere di informazione e cheratite bollosa insorta dopo l'intervento, cui erano collegate le sofferenze patite dalla paziente, avrebbe imposto la soluzione opposta per le medesime ragioni indicate nel terzo motivo di ricorso.
4.1.- Il primo profilo di censura è infondato alla luce del principio secondo il quale la violazione di un diritto fondamentale della persona, qual è quello all'autodeterminazione in ordine alla tutela per via terapeutica della propria salute, comporta la risarcibilità di ogni tipo di pregiudizio non patrimoniale che ne sia causalmente derivato (Cass., Sez. un., nn. 26972, 26973 e 26974 del 2008, cui s'è allineata la giurisprudenza successiva).
Il secondo profilo è invece fondato per le ragioni già esposte in sede di esame del terzo motivo di ricorso, avendo la corte liquidato il danno morale soggettivo in esclusiva correlazione al ravvisato pregiudizio della salute, considerato risarcibile per una ragione errata in diritto.
IL RICORSO INCIDENTALE (della paziente).
5.- Si duole la ricorrente Sa.Lu. che la corte d'appello abbia ritenuto inammissibile la domanda di risarcimento del danno da invalidità permanente per mancanza di specifici motivi di impugnazione sul punto, sostenendo che poichè la domanda di risarcimento era stata riproposta in appello, il gravame aveva necessariamente investito l'intero thema decidendum.
5.1.- Il motivo è manifestamente infondato.
La ricorrente ha del tutto prescisso dalla circostanza che il giudice di primo grado aveva specificamente escluso che, in esito al successivo intervento di trapianto di cornea, fossero residuati postumi permanenti. E nella succinta illustrazione del motivo non si assume che tale specifica ratio decidendi sia stata oggetto di altrettanto specifica censura, come sarebbe stato necessario.
CONCLUSIONI. 6.- Rigettati il primo ed il secondo motivo del ricorso principale ed il ricorso incidentale, vanno conclusivamente accolti, nei sensi sopra chiariti, il terzo ed il quarto motivo del ricorso principale.
La sentenza è cassata in relazione alle censure accolte, con rinvio per un rinnovato apprezzamento del fatto alla luce dei principi enunciati e - in caso di conclusione sfavorevole alla paziente sulla risarcibilità del danno da pregiudizio temporaneo della salute, per difetto di nesso eziologico fra la condotta omissiva del medico e le complicanze conseguite all'intervento chirurgico - per l'apprezzamento ulteriore relativo alla eventuale sussistenza di uno spazio risarcitorio correlato alla sola lesione del diritto all'autodeterminazione, in relazione peraltro alle conseguenze che ne fossero in ipotesi derivate e non ravvisabile in ragione della lesione del diritto in se stessa considerata (secondo i principi enunciati dalle più volte citate sentenze delle Sezioni unite, che hanno ribadito l'inconfigurabilità del cosiddetto "danno evento").
Il giudice del rinvio, che si designa nella stessa corte d'appello in diversa composizione, regolerà anche le spese del giudizio di legittimità.
LA CORTE DI CASSAZIONE riunisce i ricorsi, rigetta il primo ed il secondo motivo del ricorso principale ed il ricorso incidentale, accoglie per quanto di ragione il terzo ed il quarto motivo del ricorso principale, cassa in relazione alle censure accolte e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla corte d'appello di Napoli in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 12 gennaio 2010.
Depositato in Cancelleria il 9 febbraio 2010
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