giustificato motivo oggettivo e repechage la cassazione ci ripensa

giustificato motivo oggettivo e repechage la Cassazione ci ripensa
 
Con la sentenza n 5592 del 22 marzo 2016 la Cassazione ponendosi in consapevole contrasto con il precedente consolidato indirizzo in tema di repechage ha ritenuto che gravi integralmente sul datore di lavoro l'onere di allegare e provare l'impossibilità di repechage
 
 
 
 
Il c.d. onere di repechage costituisce il frutto di una costante elaborazione giurisprudenziale che, di recente, ha conosciuto un'uletriore significativa tappa rappresentata dalla sentenza n. 5592 del 2016 della Suprema Corte di Cassazione che si è posta in consapevole contrasto con un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui l'onere datoriale di allegare e provare l'impossibilità di repechage (se del caso a mezzo di presunzioni) consegue (solo) ad un preventivo onere di allegazione, da parte del lavoratore, dei posti di lavoro ambiti e disponibili in azienda.
 
Ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 3, accanto all'onere datoriale della prova dell'impossibilità di impiegare il lavoratore in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, in relazione al concreto contenuto professionale dell'attività cui il lavoratore stesso era precedentemente adibito, la Suprema Corte ha, più volte, ritenuto l'esistenza di un onere, a carico dello stesso lavoratore che impugni il licenziamento, di allegazione dell'esistenza di altri posti di lavoro per la sua utile ricollocazione, in virtù di un obbligo di collaborazione nell'accertamento di un possibile repechage (Cass. 6 ottobre 2015, n. 19923; Cass. 3 marzo 2014, n. 4920; Cass. 8 novembre 2013 n. 25197;Cass. 19 ottobre 2012, n. 18025; Cass. 26 aprile 2012, n. 6501; Cass. 8 febbraio 2011 n. 3040; Cass. 18 marzo 2010, n. 6559; Cass. 22 ottobre 2009, n. 22417; Cass. 19 febbraio 2008, n. 4068; Cass. 9 agosto 2003, n. 12037; Cass. 12 giugno 2002, n. 8396; Cass. 3 ottobre 2000, n. 13134): in una sorta, come precisato dalla Corte con la innovativa sentenza n. 5592 del 2016, di cooperazione processuale.
 
Secondo la pronuncia in questione, però, tale preventivo onere di allegazione a carico del lavoratore è risultato più il frutto di una presupposizione che l'esito di un corretto percorso argomentativo e non sarebbe convincente in quanto determinerebbe una dvaricazione tra onere di allegazione e onere della prova che sarebbe contraria agli ordinari criteri di riparto degli oneri processuali.
 
Potrebbe, tuttavia, in senso contrario, ritenersi, che la possibilità di repechage debba intendersi un fatto (posityivo) integrante l'illegittimità del licenziamento il cui onere d'allegazione grava sul lavoratore. L'onere probatorio a carico del del datore di lavoro, invece, potrebbe essere considerato conseguente all'applicazione di un diverso principio processuale che è quello della vicinanza dell'oggetto della prova su cui, in tema di inadempimento contrattuale, hanno avuto modo di soffermarsi le SS.UU. con la pronuncia n. 13533/2001 
 
 
Cassazione civile, sez. lav., 22/03/2016,  n. 5592
 
In materia di illegittimo licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore di lavoro l'allegazione e la prova dell'impossibilità di repechage del lavoratore licenziato, in quanto requisito del giustificato motivo di licenziamento, con esclusione di un onere di allegazione al riguardo del secondo, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i due suddetti oneri, entrambi spettanti alla parte deducente.
 
 
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3 e vizio di motivazione illogica, insufficiente e contraddittoria, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per mancato accertamento dell'effettiva cessazione, al di là del suo accorpamento ad altra, dell'attività della divisione Applicazioni Industriali e della soppressione delle proprie mansioni, senza alcuna giustificazione di ciò, nonostante la specificità al riguardo delle doglianze in appello.
Con il secondo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, artt. 1175, 1375, 2697 e 2729 c.c. e vizio di motivazione, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per non ritenuto inadempimento dalla società datrice all'obbligo di repechage, pure con motivazione insufficiente e contraddittoria.
Con il terzo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, artt. 1175, 1375, 2697 e 2729 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per erronea ripartizione dell'onere della prova, non posto a carico, secondo più rigoroso indirizzo interpretativo di legittimità, del datore di lavoro, senza alcun coinvolgimento collaborativo del lavoratore, come invece per altro indirizzo di minor rigore.
Con il quarto, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, artt. 1175, 1375 c.c. e vizio di motivazione illogica, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per mancata esatta valutazione della disponibilità manifestata allo svolgimento di mansioni anche inferiori, con la lettera del 25 marzo 2009 in risposta a quella datoriale di licenziamento senza preavviso del 17 marzo 2009, nell'impossibilità di manifestare prima una tale disponibilità, essendo all'oscuro della determinazione della propria datrice, con la conseguente inapplicabilità al caso di specie del principio acriticamente recepito dalla Corte territoriale, riguardante tuttavia ipotesi diversa di previa conoscenza della situazione dai lavoratori (prima oggetto di demansionamento impugnato giudizialmente e quindi) licenziati.
Con il quinto, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, artt. 1175 e 1375 c.c. e vizio di motivazione contraddittoria, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per omessa valutazione del proprio carico familiare nella valutazione della preferenza datoriale per la conservazione dell'incarico di direttore della divisione Geotecnica al dr. B. in proprio danno.
Il primo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3 e vizio di motivazione, per mancato accertamento dell'effettiva cessazione dell'attività della divisione Applicazioni Industriali e della soppressione delle mansioni del lavoratore, è inammissibile.
Sotto il profilo di violazione di legge, al di là della formale enunciazione della sua rubrica, esso non integra gli appropriati requisiti di erronea sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta regolata dalla disposizione di legge, mediante specificazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l'interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984).
Nè qui rileva una questione di sindacabilità, sotto il profilo della falsa interpretazione di legge, del giudizio applicativo di una norma cd. "elastica" (quale indubbiamente la clausola generale del giustificato motivo obbiettivo ai sensi della L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3), che indichi solo parametri generali e pertanto presupponga da parte del giudice un'attività di integrazione giuridica della norma, a cui sia data concretezza ai fini del suo adeguamento ad un determinato contesto storico - sociale: in tal caso ben potendo il giudice di legittimità censurare la sussunzione di un determinato comportamento del lavoratore nell'ambito del giustificato motivo (piuttosto che della giusta causa di licenziamento), in relazione alla sua intrinseca lesività degli interessi del datore di lavoro (Cass. 18 gennaio 1999, n. 434; Cass. 22 ottobre 1998, n. 10514).
E ciò per la sindacabilità, da parte della Corte di Cassazione, dell'attività di integrazione del precetto normativo compiuta dal giudice di merito, a condizione che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale (Cass. 26 aprile 2012, n. 6498; Cass. 2 marzo 2011, n. 5095): con limitazione, alla luce dell'esperienza applicativa della Corte, almeno nella sua teorica enunciazione, quando il giudice del merito sia chiamato ad applicare concetti giuridici indeterminati, del controllo di legittimità alla verifica di ragionevolezza della sussunzione del fatto e quindi ad un sindacato su vizio di violazione di norma di diritto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ben lontano da quello dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. s.u. 18 novembre 2010, n. 23287).
Ed infatti, il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ricorre o non ricorre a prescindere dalla motivazione (che può concernere soltanto una questione di fatto e mai di diritto) posta dal giudice a fondamento della decisione (id est: del processo di sussunzione), per l'esclusivo rilievo che, in relazione al fatto accertato, la norma non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata male applicata (Cass. 15 dicembre 2014, n. 26307; Cass. 24 ottobre 2007, n. 22348). Sicchè, il processo di sussunzione, nell'ambito del sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto, presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata; al contrario del sindacato di legittimità ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che invece postula un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti.
Ciò che appunto si verifica nel caso di specie, in cui si controverte, non tanto (e per le ragioni dette) di esatta interpretazione di norme nè di corretto esercizio del processo di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta regolata dalla disposizione di legge denunciata (correttamente individuata nell'integrazione del giustificato motivo oggettivo dal processo di riorganizzazione aziendale comportante l'accorpamento della divisione già diretta da P. in quella Geotecnica, per crisi economica e finanziaria), quanto piuttosto di accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giustificato motivo soggettivo di licenziamento (effettiva soppressione delle mansioni del lavoratore):
e pertanto sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli standards, conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale (Cass. 2 marzo 2011, n. 5095).
Parimenti inammissibile è il denunciato vizio di illogica, insufficiente e contraddittoria motivazione, non più deducibile per l'attuale testo dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (di denuncia "per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti"), applicabile ratione temporis per la pubblicazione della sentenza impugnata in data posteriore (13 febbraio 2013) al trentesimo giorno successivo a quella di entrata in vigore della L. 7 agosto 2012, n. 134, di conversione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83 (12 settembre 2012), secondo la previsione dell'art. 54, comma 3 del decreto legge citato.
Esso ha, infatti, introdotto nell'ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (nel senso che, qualora esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il "come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività"; fermo restando che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.
Sicchè, detta riformulazione deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 preleggi, come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione. Ed è pertanto denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.
Tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053).
Nè l'omesso esame di elementi istruttori integra in sè il suddetto vizio, qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498): con la conseguente preclusione nel giudizio di cassazione dell'accertamento dei fatti ovvero della loro valutazione a fini istruttori (Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439).
Il secondo (violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, artt. 1175, 1375, 2697 e 2729 c.c. e vizio di motivazione, per non ritenuto inadempimento dalla società datrice all'obbligo di repechage) e il terzo motivo (violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, artt. 1175, 1375, 2697 e 2729 c.c., per erronea ripartizione dell'onere della prova al riguardo) sono congiuntamente esaminabili per la loro stretta connessione.
Essi sono fondati.
Il collegio è ben consapevole di un consolidato indirizzo di questa Corte, ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 3 (accanto ad uno di chiara affermazione dell'onere datoriale della prova dell'impossibilità di impiegare il lavoratore in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, in relazione al concreto contenuto professionale dell'attività cui il lavoratore stesso era precedentemente adibito: Cass. 12 luglio 2012, n. 11775; 26 marzo 2010, n. 7381; Cass. 13 agosto 2008, n. 21579; Cass. 14 giugno 2005, n. 12769; Cass. 9 giugno 2004, n. 10916; Cass. 1 ottobre 1998, n. 9768; Cass. 26 ottobre 1993, n. 9369), secondo cui, se indubbiamente un tale onere competa al datore di lavoro, tuttavia esso conseguirebbe da un (diverso e propedeutico) onere, a carico dello stesso lavoratore che impugni il licenziamento, di allegazione dell'esistenza di altri posti di lavoro per la sua utile ricollocazione, in virtù di un preteso obbligo di collaborazione nell'accertamento di un possibile repechage (Cass. 6 ottobre 2015, n. 19923; Cass. 3 marzo 2014, n. 4920; Cass. 8 novembre 2013 n. 25197;
Cass. 19 ottobre 2012, n. 18025; Cass. 26 aprile 2012, n. 6501; Cass. 8 febbraio 2011 n. 3040; Cass. 18 marzo 2010, n. 6559; Cass. 22 ottobre 2009, n. 22417; Cass. 19 febbraio 2008, n. 4068; Cass. 9 agosto 2003, n. 12037; Cass. 12 giugno 2002, n. 8396; Cass. 3 ottobre 2000, n. 13134): in una sorta, per così dire, di cooperazione processuale.
Tuttavia, come chiaramente si evince dall'integrale lettura delle sentenze citate, un tale indirizzo imperniato su una netta (e inedita) divaricazione tra onere di allegazione (in capo al lavoratore) e di prova (in capo al datore di lavoro) è meramente tralaticio, fondandosi su una petizione di principio (secondo cui "il lavoratore, pur non avendo il relativo onere probatorio, che grava per intero sul datore di lavoro, ha comunque un onere di deduzione e di allegazione di tale possibilità di repechage") assunta come postulato, in quanto affatto argomentata nel suo fondamento giuridico.
Per trovare una spiegazione, occorre risalire ad una lontana sentenza, che, premesso l'onere datoriale, in tema di licenziamento per giustificato motivo obiettivo secondo costante orientamento della medesima Corte, di provare l'impossibilità di una diversa utilizzazione, trattandosi di circostanza pur sempre ricollegabile alle generali "ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa", ha offerto la seguente giustificazione: "Pur sussistendo... siffatto carico probatorio sul datore di lavoro, resta peraltro pur sempre a carico del lavoratore, ricorrente in giudizio per ottenere l'annullamento del licenziamento, l'onere di dedurre ed allegare, in osservanza delle prescrizioni sulla forma della domanda dettate dall'art. 414 c.p.c. (secondo cui la domanda deve contenere, tra l'altro, l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali (essa) si fonda": n. 3 cit. art. 414), le specifiche circostanze e ragioni costituenti i presupposti di tale azione. E pertanto - con riferimento al caso che qui interessa - è da ricondurre a tale onere, del lavoratore ricorrente, il dedurre e l'allegare circostanze di fatto e ragioni di diritto costituenti il fondamento della affermata illegittimità del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo: e così la insussistenza di un giustificato motivo, ovvero l'inadeguatezza in tal senso del motivo addotto dal datore di lavoro, ed anche la possibilità, comunque, di una sua diversa utilizzazione nell'impresa con mansioni equivalenti... Sarà poi onere del convenuto datore di lavoro, in opposizione alle suddette deduzioni e allegazioni attinenti agli elementi essenziali dell'azione contro di lui proposta, fornire la prova ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 5 cit. (che in sostanza contiene una specificazione del principio generale di cui all'art. 2697 c.c., comma 2) dei fatti impeditivi dell'azionato diritto ad ottenere l'annullamento del licenziamento: e fornire quindi la prova della sussistenza delle ragioni produttive e organizzative aziendali di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 3 cit. (ed in particolare, nel caso di specie, la prova della sostenuta riduzione dell'attività imprenditoriale per diminuzione degli appalti), nonchè la prova che non v'era comunque possibilità di una diversa e adeguata utilizzazione del dipendente. Ma ove una siffatta possibilità di diversa utilizzazione (che costituisce elemento di fatto certamente collegato, ma pur sempre differenziato e distinto rispetto alle vere e proprie ragioni di carattere organizzativo, produttivo e funzionale riferite alla attività aziendale dal citato art. 3) non sia stata neppure allegata dal ricorrente tra gli elementi posti a fondamento dell'azione e tra i presupposti della sua domanda, non v'è ragione logica per cui il convenuto debba chiedere di provare la insussistenza di una tale circostanza, in quanto appunto nemmeno prospettata dalla parte interessata a farla valere" (Cass. 23 ottobre 1998, n. 10559).
Appare evidente come i principi testualmente riportati (e che, si ribadisce, costituiscono la giustificazione del consolidato indirizzo qui confutato) non possano essere condivisi, e non solo perchè già in precedenza smentiti, in particolare da due sentenze, secondo cui:
"l'onere della prova della impossibilità di adibire il lavoratore allo svolgimento di mansioni analoghe e quelle svolte in precedenza, pur dovendo essere mantenuto entro limiti di ragionevolezza sì che può considerarsi assolto anche mediante il ricorso a risultanze probatorie di natura presuntiva e indiziaria... non può tuttavia essere posto direttamente o indirettamente a carico del lavoratore, neppure al solo fine della indicazione di posti di lavoro assegnabili invero, pur dovendosi tener conto della specificità dei vari settori dell'impresa, la superfluità del lavoro del dipendente licenziato deve essere valutata entro l'ambito dell'intera azienda e non già con riferimento al singolo posto ricoperto, nel senso che grava interamente sul datore di lavoro la dimostrazione della impossibilità di utilizzare il dipendente in altro settore della stessa azienda" (Cass. 7 luglio 1992 n. 8254); "La prova...
dell'impossibilità di un diverso impiego della lavoratrice licenziata nell'azienda, senza dequalificazione, gravava per intero anch'essa sul datore di lavoro e non poteva quindi trasferirsi neppure in parte sulla lavoratrice (pur se al solo fine dell'indicazione di posti di lavoro a lei assegnabili). Non si vede in realtà come sia esigibile un'indicazione del genere da parte del lavoratore licenziato, che è estraneo all'organizzazione aziendale, e l'indirizzo in tal senso di questa Corte... può dirsi costante" (Cass. 18 aprile 1991, n. 4164).
Con la loro enunciazione si ritiene, in buona sostanza, che la possibilità di una diversa utilizzazione del lavoratore licenziato in mansioni diverse (cd. repechage) sia elemento costitutivo della domanda di impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e perciò nell'onere di allegazione del lavoratore medesimo, cui il datore di lavoro opponga il fatto impeditivo "dell'azionato diritto ad ottenere l'annullamento del licenziamento":
in esso inclusa la negazione della "possibilità di una diversa e adeguata utilizzazione del dipendente", purchè "allegata dal ricorrente tra gli elementi posti a fondamento dell'azione e tra i presupposti della sua domanda".
Ma in realtà non è così, perchè, se è indubbio che nel giudizio di impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo la causa petendi sia data dall'inesistenza dei fatti giustificativi del potere spettante al datore di lavoro, gravando su quest'ultimo l'onere di provare la concreta sussistenza delle ragioni inerenti all'attività produttiva e l'impossibilità di utilizzare il lavoratore licenziato in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, è pur vero che l'indicazione (pur "possibile" da parte del "lavoratore" che si sia fatto "parte diligente") di un posto di lavoro alternativo a lui assegnabile, o l'allegazione di circostanze idonee a comprovare l'insussistenza del motivo oggettivo di licenziamento, comporti l'inversione dell'onere della prova (Cass. 5 marzo 2015, n. 4460, con espresso richiamo sul punto di Cass. 7 luglio 1992, n. 8254, che in proposito, giova ribadire, ha testualmente affermato che: "l'onere della prova della impossibilità di adibire il lavoratore allo svolgimento di mansioni analoghe e quelle svolte in precedenza... non può tuttavia essere posto direttamente o indirettamente a carico del lavoratore, neppure al solo fine della indicazione di posti di lavoro assegnabili").
Ora, la L. n. 604 del 1966, art. 5 è assolutamente chiaro nel porre a carico del datore di lavoro "l'onere della prova della sussistenza... del giustificato motivo di licenziamento": ed in tale senso esso è interpretato in ordine al controllo giudiziale dell'effettiva sussistenza del motivo determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive, addotto dal datore di lavoro, essendo invece insindacabile la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost. (Cass. 14 maggio 2012, n. 7474; Cass. 11 luglio 2011, n. 15157).
Ed in esso rientra il requisito dell'impossibilità di repechage, quale criterio di integrazione delle ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa, nella modulazione della loro diretta incidenza sulla posizione del singolo lavoratore licenziato, derogabile soltanto quando il motivo consista nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile (dovendo in tal caso il datore di lavoro pur sempre improntare l'individuazione del soggetto da licenziare ai principi di correttezza e buona fede, cui deve essere informato, ai sensi dell'art. 1175 c.c., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e quindi anche il recesso di una di esse: Cass. 28 marzo 2011, n. 7046) ovvero in caso di licenziamento del dirigente d'azienda per esigenze di ristrutturazione aziendali (per incompatibilità del repechage con la posizione dirigenziale del lavoratore, assistita da un regime di libera recedibilità del datore di lavoro: Cass. 11 febbraio 2013, n. 3175).
Ed allora, la domanda del lavoratore è correttamente individuata, a norma dell'art. 414 c.p.c., nn. 3 e 4, da un petitum di impugnazione del licenziamento per illegittimità e da una causa petendi di inesistenza del giustificato motivo così come intimato dal datore di lavoro, cui incombe pertanto la prova, secondo la previsione della L. n. 604 del 1966, art. 5, della sua ricorrenza in tutti gli elementi costitutivi, in essi compresa l'impossibilità di repechage: senza alcun onere sostitutivo del lavoratore alla sua controparte datrice sul piano dell'allegazione, per farne conseguire un onere probatorio (offrendogli, per così dire, l'affermazione del fatto da provare).
Si tratterebbe di una divaricazione davvero singolare, in quanto inedita sul piano processuale, nel quale l'onere della prova è modulato in coerente corrispondenza con quello dell'allegazione, come inequivocabilmente stabilito dall'indicazione dei requisiti della domanda ("esposizione dei fatti... sui quali si fonda la domanda" e "indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi": art. 414 c.p.c., nn. 4 e 5, con previsione del tutto analoga a quella dell'art. 163 c.p.c., comma 3, nn. 4 e 5), in funzione di una corretta ripartizione dell'onere probatorio secondo la previsione dell'art. 2697 c.c., a norma del quale ciascuna delle parti deve provare i fatti a fondamento delle proprie domande o eccezioni, espressione del rispettivo onere di allegazione, nell'evidente indisgiungibilità dei due piani (Cass. s.u. 16 febbraio 2016, n. 2951: in riferimento ad allegazione e prova della titolarità della posizione giuridica vantata in giudizio; Cass. 15 ottobre 2014, n. 21847 e Cass. 19 agosto 2009, n. 18399: in riferimento all'onere di provare le proprie allegazioni soltanto ove non specificamente contestate da controparte).
La patrocinata ricostruzione sistematica della ripartizione dei rispettivi oneri di allegazione e di prova tra le parti nella fattispecie in esame trova piena conferma anche ove ricondotta ai principi in tema di responsabilità da inadempimento, di cui la normativa di carattere generale in materia di licenziamenti (come principalmente stabilita dalla L. n. 604 del 1966 e dalla L. n. 300 del 1970, art. 18) costituisce specificazione, essendo applicabile agli effetti del licenziamento, qualora non operi detta normativa, la disciplina civilistica dell'inadempimento (Cass. 22 luglio 2004, n. 13731).
Sicchè, in base a tali principi, il creditore attore (lavoratore impugnante il licenziamento come illegittimo) è onerato della (allegazione e) prova della fonte negoziale (o legale) del proprio diritto (rapporto di lavoro a tempo indeterminato) e dell'allegazione dell'inadempimento della controparte (illegittimo esercizio del diritto di recesso per giustificato motivo oggettivo), mentre il debitore convenuto (datore di lavoro) è onerato della prova del fatto estintivo (legittimo esercizio del diritto di recesso per giustificato motivo oggettivo nella ricorrenza dei suoi presupposti, tra i quali, come detto, anche l'impossibilità di repechage): in coerenza con i principi di persistenza del diritto (art. 2697 c.c.) e di riferibilità o vicinanza della prova (Cass. s.u. 30 ottobre 2001, n. 13533). E tale principio di riferibilità o vicinanza della prova, conforme all'esigenza di non rendere eccessivamente difficile l'esercizio del diritto del creditore a reagire all'inadempimento, senza peraltro penalizzare il diritto di difesa del debitore, in quanto nella migliore disponibilità degli elementi per dimostrare le ragioni del proprio comportamento, ormai di consolidata applicazione (Cass. 29 gennaio 2016, n. 1665; Cass. 14 gennaio 2013, n. 2016;
Cass. 2 settembre 2013, n. 20110; Cass. 17 aprile 2012, n. 6008;
Cass. 6 giugno 2012, n. 9099), trova coerente riscontro anche nel caso di specie: per la maggiore vicinanza di allegazione e prova dell'impossibilità di repechage al datore di lavoro, non disponendo il lavoratore, al contrario del primo, della completezza di informazione delle condizioni dell'impresa, tanto più in una condizione di crisi, in cui esse mutano continuamente a misura della sua evoluzione e degli interventi imprenditoriali per rimediarvi o comunque indirizzarne gli sbocchi. Ciò che, d'altro canto, da tempo è stato ben presente a questa Corte, avendo in particolare essa osservato: "non si vede in realtà come sia esigibile un'indicazione del genere" (ossia dei posti assegnabili) "da parte del lavoratore licenziato, che è estraneo all'organizzazione aziendale" (Cass. 18 aprile 1991, n. 4164, che ha anche sottolineato la costanza di un indirizzo in tal senso della Corte).
In via conclusiva, si comprende allora come la tralaticia affermazione di una sorta di cooperazione processuale del lavoratore, e più in generale di ogni parte, sul piano dell'allegazione in favore della controparte sia priva di alcun fondamento normativo;
soltanto sul piano sostanziale un tale obbligo di cooperazione è, infatti, previsto tra le parti, siccome tenute ad un comportamento di collaborazione, conforme ai principi di correttezza e di buona fede, a norma degli artt. 1175, 1206 e 1375 c.c., quale obbligazione collaterale alle principali (Cass. 6 febbraio 2008, n. 2800; Cass. 16 gennaio 1997, n. 387).
Dalle superiori argomentazioni, assorbenti l'esame del quarto (violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, artt. 1175 e 1375 c.c. e motivazione illogica, per mancata esatta valutazione della disponibilità manifestata allo svolgimento di mansioni anche inferiori) e del quinto motivo (violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, artt. 1175 e 1375 c.c. e motivazione contraddittoria, per omessa valutazione del proprio carico familiare nella valutazione della preferenza datoriale per la conservazione dell'incarico di direttore della divisione Geotecnica al dr. B.), discende coerente l'accoglimento dei due motivi congiuntamente scrutinati, con la cassazione della sentenza impugnata in relazione ad essi e rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d'appello di Trieste in diversa composizione, sulla base del seguente principio di diritto:
"In materia di illegittimo licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore di lavoro l'allegazione e la prova dell'impossibilità di repechage del lavoratore licenziato, in quanto requisito del giustificato motivo di licenziamento, con esclusione di un onere di allegazione al riguardo del secondo, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i due suddetti oneri, entrambi spettanti alla parte deducente".
 
 
 
 
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