la frazionabilità del credito alla cessazione del rapporto di lavoro

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rimessa al Primo Presidente della Suprema Corte la questione dell'ammissibilità di un esercizio frazionato dei diversi crediti esistenti alla cessazione del rapporto di lavoro.
 
Le Sezioni Unite potrebbero doversi pronunciare in ordine ad una delicata questione di frequente applicazione pratica nell'ambito dei giudizi di lavoro. Se sia ammissibile l'esercizio frazionato dei diversi crediti esistenti al momento della cessazione del rapporto di lavoro in favore del lavoratore e, in tale caso, a quali condizioni. 
Il divieto di frazionamento del credito discendente da un'unica obbligazione è stato, infatti, un principio enunciato senza specifico riferimetno al rapporto di lavoro dipendente dalle Sezioni Unite della Corte con la sentenza n. 23726/2007.
tale principio ha trovato, anche nella giurisprudenza di legittimità, un'applicazione ampia nell'ambito dei rapporti di lavoro essendosi, infatti, affermato che, secondo correttezza e buona fede, il lavoratore sarebbe tenuto ad esercitare tutti i diritti di credito esistenti al momento della cessazione del rapporto di lavoro anche se, a rigore, basati su titoli obbligatori distinti. E' stato, però, al riguardo anche precisato che solo un consapevole o colpevole abuso dello strumento processuale determinerebbe l'improponibilità della domanda successiva. Le Sezioni Semplici hanno rimesso la questione all'attenzione del Primo presidente per l'eventuale rimessione alle Sezioni unite per fare chiarezza su una questione obiettivamente complicata che potrebbe anche determinare l'abbreviazione dei termini prescrizionali di taluni dei titoli creditori e, in particolare, di quelli che non possono essere azionati prima della cessazione del rapporto di lavoro. Inoltre, sul piano applicativo, val la pena ricordare che, sovente, la pluralità delle azioni discende dall'esercizio, da parte del lavoratore, in via prioritaria dei crediti risultanti da documentazione idonea all'emissione di un'ingiunzione e, successivamente, dall'esercizio, in via ordinaria, delle residue pretese creditorie. 
 
Cassazione civile, sez. lav., 25/01/2016,  n. 1251 
   
Non vi sono strumenti per far derivare dalla violazione del dovere di lealtà e probità configurabile nella proposizione di una pluralità di domande a rapporto ormai cessato, per fatti genetici anteriori o che trovano titolo nella cessazione medesima, la sanzione dell'improponibilità delle domande successive alla prima. Non sussistendo sul punto un orientamento giurisprudenziale unanimemente condiviso, il Collegio ritiene di dovere rimettere la questione alle Sezioni Unite.
 
 
FATTO E DIRITTO
1. Con ricorso al Giudice del lavoro di Torino depositato il 26 marzo 2009, A.G.S. chiedeva la condanna della ex datrice di lavoro Fiat Auto s.p.a. al pagamento di una somma a titolo di ricalcolo dell'indennità premio di fedeltà con inclusione dei compensi percepiti in modo continuativo.
2. Il Tribunale di Torino dichiarava l'improponibilità della domanda, in quanto il ricorrente aveva agito in precedenza chiedendo la rideterminazione del TFR per incidenza nella relativa base di calcolo delle voci retributive percepite in via continuativa. Secondo il Tribunale i crediti fatti valere nelle due cause, derivando dalla cessazione del medesimo rapporto di lavoro, avrebbero potuto e dovuto essere azionati congiuntamente, alla luce della sentenza n. 23726/2007 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Il ricorrente aveva invece indebitamente frazionato il credito in una pluralità di domande.
3. La Corte di appello, mutando il proprio precedente orientamento in materia, accoglieva l'appello proposto dal lavoratore, osservando che il principio della infrazionabilità della domanda, ribadito anche da Cass. n. 26961/2009, 15476/2008, 28719/2008, opera all'interno di un rapporto obbligatorio ritenuto unico in senso proprio, mentre dal rapporto di lavoro discende una pluralità di obbligazioni, ognuna con una propria specifica fonte, di natura legale oppure contrattuale, concernente istituti economici diversi. Il principio affermato dai richiamati precedenti di legittimità opera all'interno di ognuno di questi rapporti obbligatori (come nel caso della sentenza 28719/2008 relativamente al TFR), ma non riguarda il complesso di essi, perchè non può affermarsi che alla cessazione del rapporto di lavoro si viene a costituire in capo al lavoratore un "unico credito" costituito dalla sommatoria delle voci economiche, retributive e/o risarcitorie, ancora da esso derivanti. Il divieto di frazionamento dell'azione non può, dunque, trovare applicazione quando le azioni sono diverse, perchè sono diversi i titoli (causae petendi), i regimi e i presupposti, giuridici e di fatto.
4. Per la cassazione di tale decisione propone ricorso la Fiat Group Automobiles s.p.a. (nuova denominazione della Fiat Auto s.p.a.) sulla base di un solo, articolato motivo. Resiste l' A. con controricorso. FGA s.p.a. depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
5. Con unico motivo la società ricorrente, denunciando violazione di legge in relazione all'art. 2909 c.c., e all'art. 111 Cost., censura la sentenza per non avere debitamente considerato le implicazioni scaturenti dall'avere il lavoratore agito una prima volta per la rideterminazione del TFR, previa inclusione nella relativa base di calcolo del premio di anzianità, del compenso per festività coincidenti con la domenica, del compenso per ferie non fruite e del compenso per permessi non fruiti, e una seconda volta per rivendicare differenze del premio di fedeltà, parimenti erogato alla cessazione del rapporto, previa inclusione nella relativa base di calcolo dei compensi percepiti in via continuativa; entrambe le domande trovavano titolo in fatti preesistenti alla cessazione del rapporto di lavoro e relativi al ricalcolo dei compensi di fine rapporto. Richiama i principi espressi dalle S.U. n. 23726 del 2007 evidenziando che le ipotesi normativamente previste di parcellizzazione della prestazione oggetto dell'unico credito rispondono sempre ad una ben individuabile ratto, corrispondente ad un interesse del creditore esteriormente riconoscibile e meritevole di tutela, situazione non ravvisabile nella specie. Il lavoratore aveva violato il principio secondo cui è inibita la disarticolazione, da parte del creditore, dell'unità sostanziale del rapporto, che, in quanto attuata nel processo e tramite il processo, si risolve automaticamente anche in abuso dello stesso.
6. La questione sottoposta all'esame della Corte è dunque se, una volta cessato il rapporto di lavoro, il lavoratore debba avanzare in un unico contesto giudiziale tutte le pretese creditorie che trovano titolo nella cessazione del rapporto di lavoro e se il frazionamento di esse in giudizi diversi costituisca un abuso sanzionabile con l'improponibilità delle domande successive.
7. Muovendo dalla considerazione che il fatto generatore del diritto è unitario, essendo costituito dalla cessazione del rapporto di lavoro, da cui scaturiscono il T.F.R. di cui all'art. 2120 c.c., e il premio di fedeltà, computato in misura pari all'indennità sostitutiva del preavviso di cui all'art. 2121 c.c., e che quindi l'azione proposta successivamente verte, al pari di quella proposta anteriormente, su crediti derivanti dal ricalcolo di trattamenti di fine rapporto e che entrambe le azioni hanno ad oggetto l'inclusione di emolumenti retributivi di carattere continuativo nella base di calcolo dei relativi istituti, la tesi dell'odierna ricorrente è che tali crediti ben potevano (e dovevano) essere pretesi in un unico contesto, anzichè mediante una pluralità di giudizi e in tempi diversi, costituendo abuso del processo il comportamento del creditore che, per ottenere l'esatto adempimento delle prestazioni ancora dovute, costringa il debitore a subire una serie di azioni processuali, volte ad uno scopo normalmente realizzabile mediante un unico giudizio, ciò anche alla luce di quanto statuito dalla giurisprudenza di legittimità con la nota pronuncia n. 23726 del 2007.
7.1. Con questa sentenza le Sezioni Unite della Corte hanno affermato che non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, in quanto tale scissione del contenuto della obbligazione, operata dal creditore per sua esclusiva utilità con unilaterale modificazione aggravativa della posizione del debitore, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l'esecuzione del contratto ma anche nell'eventuale fase dell'azione giudiziale per ottenere l'adempimento, sia con il principio costituzionale del giusto processo, traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l'ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale.
7.2. Nello stesso senso, si è espressa anche S.U. n. 26961 del 2009, secondo cui in materia di obbligazioni pecuniarie nascenti da un unico rapporto di lavoro, costituisce principio generale la regola secondo la quale la singola obbligazione va adempiuta nella sua interezza e in un'unica soluzione, dovendosi escludere che la stessa possa, anche nell'eventuale fase giudiziaria, essere frazionata dal debitore o dal creditore.
7.3. Già Cass. 11271 del 1997 aveva affermato che deve ritenersi contrario a buona fede, e quindi inammissibile, siccome illegittimo per abuso del diritto, il comportamento del creditore il quale, potendo chiedere l'adempimento coattivo dell'intera obbligazione, frazioni, senza alcuna ragione evidente, la richiesta di adempimento in tutta una pluralità di giudizi di cognizione davanti a giudici competenti per le singole parti. Nè vale ad escludere questo giudizio di sfavore il fatto che nessun vantaggio economico si profili, in tal modo, per il creditore. Ciò che, infatti, unicamente rileva, ai fini di una corretta impostazione del problema entro i canoni ermeneutici del principio di buona fede, è l'esistenza di un qualsivoglia pregiudizio per il debitore, non giustificato da un corrispondente vantaggio - meritevole di tutela - per il creditore.
8. Tanto premesso, deve rilevarsi che hanno deciso cause di contenuto analogo a quella oggetto del ricorso in esame, Cass. (Sez. Lav.) n. 11256 del 2013 e n. 27064 del 2013 (non massimate), che hanno ritenuto improponibili le domande successive muovendo da una nuova interpretazione del principio della domanda, che soggiace a preclusioni direttamente derivanti da una lettura "bilanciata" degli artt. 24 e 111 Cost., alla luce della regola del "giusto processo";
ne deriva il divieto di abuso processuale che preclude l'esercizio frazionato di pretese creditorie che trovano tutte titolo nella cessazione del rapporto di lavoro.
8.1. Con la prima è stato respinto il ricorso per cassazione proposto dal lavoratore (rectius, pensionato) proposto nei confronti della F.G.A. avverso la sentenza della Corte di appello di Torino che, con orientamento interpretativo poi abbandonato, aveva dichiarato improponibile la domanda.
8.1.1. L'ordine argomentativo della sentenza n. 11256/2013 è il seguente:
a) pur a fronte di differenti titoli e presupposti giuridici delle due cause, "un inutile ed evitabile aggravio della posizione della parte oggi intimata è in re ipsa essendo la società stata oggetto di due procedimenti e costretta, quindi, a valutare - anche dal punto di vista legale - la fondatezza di due pretese ma facenti capo ad un unico rapporto di lavoro, ormai concluso";
b) "...i principi enucleati da questa Corte con la sentenza n. 23726/2007 (cfr. anche Cass. n. 28719/2008; Cass. n. 26961/2009) sono perfettamente applicabili alla fattispecie in quanto i crediti, frazionati con due distinti procedimenti, derivano dal medesimo rapporto di lavoro come tale fonte unitaria di obblighi e di doveri per le parti. Questa Corte ha infatti parlato di indebito frazionamento di pretese dovute in forza di un "unico rapporto obbligatorio", circostanza che sussiste anche nel caso di un rapporto di lavoro subordinato come tale produttivo sia di crediti di natura contrattuale che di natura legale, collegabili unitariamente alla loro genesi, la decisione originaria delle parti di stipulare un contratto di natura subordinata ex art. 2094 c.c."; "questo collegamento appare ancor più stretto nel caso in esame posto che le due controverste sono state promosse a rapporto concluso, quando cioè il complesso di obbligazioni derivanti dal contratto era ormai noto e consolidato";
c) deve essere disatteso il motivo vertente sulla pretesa violazione e falsa applicazione di legge con riferimento all'art. 24 Cost., (censura che muove dalla considerazione che le controversie esaminate dalla Cassazione concernevano un rapporto obbligatorio in senso stretto e cioè con un'unica fonte primaria; si è parlato quindi di un "rapporto obbligatorio" in senso stretto non di un rapporto tout court, come il rapporto di lavoro; i titoli dedotti nelle due controversie erano diversi, il primo di fonte legale, il secondo contrattuale e quindi anche diversi erano i regimi giuridici applicabili):
c1) "il principio di diritto affermato dalla Cassazione con giurisprudenza ormai consolidata vuole salvaguardare la meta - regola che oggi trova conferma costituzionale all'art. 111 Cost., di matrice sovranazionale del "giusto processo" (essendo sancito anche all'art. 6 Cedu ed all'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, quest'ultima certamente non applicabile direttamente alla fattispecie - ex art. 51 della stessa Carta - ma certamente elemento di interpretazione "libera" da parte del Giudice, dovendosi presumere che le scelte nazionali rispettino i principi fissati dalla Carta Ue, richiamata dall'art. 6 del TUE così come modificato dal Trattato di Lisbona ed avente "un valore espressivo di principi comuni agli ordinamenti Europei" come affermato dalla nostra Corte costituzionale già nella sentenza n. 135/2002");
c2) "Tale orientamento giurisprudenziale mira ad impedire che la parte debitrice sia sottoposta ad oneri ed a costi difensivi abnormi attraverso un'indebita ed evitabile parcellizzazione dei crediti che derivano da un rapporto obbligatorio unitario. Peraltro la protezione dell'interesse del debitore ad un comportamento processuale secondo correttezza e buona fede del creditore incontra anche ragioni di interesse pubblico alla razionalizzazione del sistema giudiziario, impedendo il formarsi di un contenzioso frammentato e disperso, ma riconducibile al medesimo rapporto obbligatorio, con il pericolo del formarsi di contrasti tra giudicati"; "non può sussistere alcun dubbio che sia i diritti di fonte legale azionati con il primo procedimento, che i secondi di fonte contrattuale derivassero da medesimo rapporto giuridico ex art. 2094 c.c.";
c3) "Non sussiste alcuna violazione dell'art. 24 Cost.; al momento della promozione del secondo ricorso il ricorrente era già pensionato ed aveva già esercitato alcuni diritti creditori concernenti l'ammontare del TFR ed era perfettamente in grado di richiedere anche il premio di produzione relativo all'ultimo anno di lavoro, senza costringere il datore di lavoro a vagliare un secondo procedimento con l'inevitabile ed ulteriore ricorso anche alla consulenza ed all'assistenza legale".
d) "...la detta giurisprudenza è senz'altro applicabile alla fattispecie e soddisfa importanti esigenze sistematiche di evitare abusi processuali, tra i quali rientra con certezza il frazionamento, privo di ogni giustificazione, di una pretesa creditoria derivante da un rapporto unitario (come quello di dipendenza ex art. 2094 c.c.), per giunta dopo la sua conclusione, salvaguardando così il principio costituzionale e sovranazionale del "giusto processo";
d1) "Parte ricorrente trascura che, alla radice dell'orientamento prima ricordato, di questa Corte vi è una ricostruzione "costituzionalmente" orientata (ispirata anche a principi di diritto Europeo in senso lato) del sistema processuale nel suo insieme, si da impedire effetti paradossali indebitamente vessatori e distruttivi, se diffusi, dell'efficienza del "sistema giustizia".
8.2. Nella sentenza n. 27064 del 2013, si è affermato:
a) "..con riferimento all'art. 24 Cost. La doglianza è imperniata sul rilievo secondo cui le controversie esaminate dalla Cassazione a sezioni unite concernevano un rapporto obbligatorio in senso stretto, e cioè con un'unica fonte primaria (Cass. n. 15476/2008), e dunque un "rapporto obbligatorio" in senso stretto e non un rapporto tout court, come il rapporto di lavoro. Nella vicenda all'esame i titoli dedotti nelle due controversie erano diversi, di fonte legale il primo e contrattuale il secondo, e ciò si riverberava anche sui diversi regimi giuridici applicabili; infine, con il terzo, si allega la violazione e falsa applicazione di norme di diritto per la ritenuta improponibilità della domanda giudiziale per il fatto che la stessa riguardasse una parte di un credito unitario attinente al rapporto di lavoro intercorso con la società, pur in mancanza di espresse disposizioni o di principi generali desumibili dall'Ordinamento";
b) "occorre premettere che la decisione della Corte territoriale ora impugnata si è informata esplicitamente ai principi espressi dalle Sezioni unite della Corte, con sentenza n. 23726 del 2007.
All'arresto delle Sezioni Unite del 2007 numerose successive decisioni della Corte si sono reiteratamente conformate e valga, per tutte, richiamare Cass. n. 28286 del 2011 ed il rilievo secondo cui "non si tratta di impedire ex post l'esercizio di una tutela di cui l'ordinamento continua a ritenere la parte meritevole, quanto di non più consentire di utilizzare, per l'accesso alla tutela giudiziaria, metodi divenuti incompatibili con valori avvertiti come preminenti ai fini di un efficace ed equo funzionamento del servizio della giustizia";
c) "... il presente ricorso, nell'avversare la decisione uniformatasi al dictum delle Sezioni unite, non prospetta ed illustra argomenti tali da indurre la Corte ad una modifica degli indirizzi interpretativi espressi dalla giurisprudenza stessa e risulta, pertanto, in contrasto con l'art. 360 bis c.p.c., n. 1 (applicabile, nella specie, ratione temporis)".
8.3. Sulla stessa linea interpretativa, si è posta Cass. n. 9317 del 2013 (Sez. Prima) che ha introdotto ulteriori spunti di riflessione, affermando che, in ipotesi di insinuazione al passivo di crediti derivanti da un rapporto di lavoro subordinato già concluso, con definizione delle rispettive posizioni di debito e credito, ancorchè siano distinti i fatti costitutivi delle singole porzioni del credito, un atteggiamento del creditore di consapevole (o di colposa) parcellizzazione di un credito - che lo stesso creditore ritiene (o dovrebbe ritenere) già definito nel suo ammontare complessivo - consente di considerare violati gli obblighi di protezione della controparte processuale implicati dalla regola di correttezza e buona fede e consente di ritenere che la pluralità di giudizi instaurati sia il frutto di un abuso del processo, in contrasto con l'obiettivo della sua ragionevole durata.
8.3.1. La Corte ha ritenuto:
a) "...che la forza espansiva del principio di infrazionabilità del credito possa superare l'autonomia dei fatti costitutivi, nell'ambito di un rapporto complesso quale quello di lavoro, soltanto se il rapporto si è concluso con la conseguente definizione delle posizioni di debito e di credito ed il creditore, pur mostrando di avere unitaria contezza del proprio credito, dichiari di volere agire soltanto per una parte di esso. Il principio di infrazionabilità del credito si fonda, infatti, secondo la citata decisione delle sezioni unite n. 23276/2007, da un lato, sulla valorizzazione della regola di correttezza e buona fede (art. 88 c.p.c.) e, dall'altro, sui canoni del giusto processo che rendono la moltiplicazione dei processi inconciliabile con l'obiettivo, costituzionalizzato nell'art. 111 Cost., della "ragionevole durata del processo";
b) "...quando, tuttavia, siano distinti i fatti costitutivi delle singole porzioni del credito, solo l'atteggiamento del creditore di consapevole (o di colposa) parcellizzazione di un credito, che lo stesso creditore ritiene (o dovrebbe ritenere) già definito nel suo ammontare complessivo, consente di considerare violati gli obblighi di protezione della controparte processuale implicati dalla regola di correttezza e buona fede e consente di ritenere che la pluralità di giudizi instaurati sia il frutto di un abuso del processo, in contrasto con l'obiettivo della ragionevole durata del processo. Se, invece, il creditore non ha effettuato, senza versare in colpa, una tale unitaria considerazione di distinte voci di credito aventi ciascuna autonomi elementi costitutivi, sia pure nella cornice di un unitario rapporto, non può predicarsi una abusività della condotta del creditore, che legittimamente può anticipare l'azione per quelle voci di credito per le quali non ritiene necessari accertamenti e valutazioni ulteriori".
9. Nella fattispecie esaminata da Cass. 9317 del 2013, si è concluso che, se era vero che al momento della presentazione della domanda tempestiva di insinuazione al passivo il rapporto di lavoro era concluso, non era stata prospettata una consapevole o colposa parcellizzazione del credito. E' stata dunque indicata la possibilità di valutare, caso per caso, se vi sia stata una colpevole inerzia del creditore/lavoratore, ossia se costui, pur avendo tutti gli elementi per azionare unitariamente i propri crediti, abbia proceduto in modo parcellizzato.
9.1. Il concetto di colposa inerzia allude ad un'omissione giuridicamente rilevante, la quale a sua volta presuppone un obbligo di attivarsi. Questo potrebbe rinvenirsi nell'art. 88 c.p.c., anche in relazione all'art. 111 Cost.. Tuttavia, l'art. 88 c.p.c., per pacifica giurisprudenza, può costituire criterio di applicazione di altre norme, quale ad esempio gli artt. 94 e 96 c.p.c., in materia di condanna alle spese, ma non risulta finora che abbia costituito fonte diretta di un obbligo specifico nel senso predetto.
9.2. I principi introdotti dalle sopra richiamate sentenze appaiono fortemente innovativi del sistema ordinamentale, prospettando una nuova interpretazione del principio della domanda, che soggiace a preclusioni direttamente derivanti da una lettura "bilanciata" degli artt. 24 e 111 Cost., alla luce della regola del "giusto processo".
9.3. Il tema interferisce anche con quello del diritto di agire nei limiti della prescrizione decorrente dalla cessazione del rapporto di lavoro per i diritti, come quello al TFR, che sorgono con la cessazione del rapporto di lavoro e da quel momento possono essere azionati. E' stato difatti costantemente ritenuto che il termine iniziale di decorso della prescrizione del diritto al TFR va individuato nel momento in cui il rapporto di lavoro subordinato è cessato, (v. ex plurimis, Cass. n. 3894 del 2010, n. 9695 del 2009, n. 8191 del 2006; v. pure Cass. 3894 del 2010). Ove si dovesse seguire l'interpretazione sopra riferita, ne conseguirebbe che, avendo carattere unitario la fonte di diritti scaturenti da un rapporto di lavoro ormai cessato, una volta che il creditore abbia agito la prima volta nella consapevolezza dell'esistenza di altri crediti e colpevolmente non li abbia fatti valere unitariamente, resta preclusa da improponibilità ogni domanda successiva, senza ogni ulteriore considerazione sul mancato decorso della prescrizione dei diritti successivamente esercitati.
10. A tali innovativi principi, si oppone la lettura tradizionale secondo cui il principio di infrazionabilità della domanda di cui alla sentenza delle Sezioni Unite n. 23726/2007, ribadito anche da Cass. n. 26961/2009, 15476/2008, 28719/2008, opera all'interno di un rapporto obbligatorio ritenuto unico in senso proprio, mentre dal rapporto di lavoro discende una pluralità di obbligazioni, ognuna con una propria specifica fonte, di natura legale oppure contrattuale, concernente istituti economici diversi. Il principio opera all'interno di ognuno di questi rapporti obbligatori (come nel caso della sentenza 28719/2008 relativamente al TFR), ma non riguarda il complesso di essi, perchè non può affermarsi che alla cessazione del rapporto di lavoro si viene a costituire in capo al lavoratore un "unico credito" costituito dalla sommatoria delle voci economiche, retributive e/o risarcitorie, ancora da esso derivanti. Il divieto di frazionamento dell'azione non può, dunque, trovare applicazione quando le azioni sono diverse, perchè sono diversi i titoli (causae petendi), i regimi e i presupposti, giuridici e di fatto.
11. In tale contesto, osserva il Collegio che l'abuso del processo, consistendo in un abuso del diritto di azione, finisce per coincidere con l'abuso del diritto e che, se è vero che l'abuso è l'esercizio del potere da parte di chi ne è pur sempre titolare legittimo, ma per fini diversi da quelli per i quali quel potere è riconosciuto dalla legge, l'abuso del processo consiste nella promozione di una lite da parte di chi è legittimato ad agire, ma l'iniziativa processuale trasmoda il fine stesso per il quale è garantita dall'ordinamento ed al contempo è contraria al principio di buona fede, per avere l'attore agito con modalità sleali.
11.1. Sin dalle più risalenti pronunce in tema di abuso del diritto, in tema di rapporti obbligatori, questa Corte ha affermato (Cass. n. 89 del 1966, n 1460 del 1973, n.960 del 1986, n. 2788 del 1999) che la buona fede, intesa in senso etico, come requisito della condotta, costituisce uno dei cardini della disciplina legale delle obbligazioni e forma oggetto di un vero e proprio dovere giuridico,che viene violato non solo nel caso in cui una delle parti abbia agito con il proposito doloso di recare pregiudizio all'altra, ma anche se il comportamento da essa tenuto non sia stato, comunque, improntato alla schiettezza alla diligente correttezza ed al senso di solidarietà sociale, che integrano, appunto, il contenuto della buona fede.
11.2. Più recenti pronunce hanno ribadito (Cass. n. 3462 del 2007) che l'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, applicabile in ambito contrattuale ed extracontrattuale, che impone di mantenere, nei rapporti della vita di relazione, un comportamento leale (specificantesi in obblighi di informazione e di avviso) nonchè volto alla salvaguardia dell'utilità altrui, nei limiti dell'apprezzabile sacrificio (principio poi ripreso dalla più volte citata sentenza delle S.U. n. 23726 del 2007).
11.3. Tuttavia, da tali principi non sembra possa argomentarsi alcuna possibilità di ricondurre ad unitarietà i molteplici crediti retributivi o risarcitori derivanti da un unico rapporto di lavoro in ragione del solo fatto che il rapporto stesso sia ormai concluso, anche qualora il creditore possa avere la percezione della preesistenza dei relativi diritti per essere i fatti genetici anteriori alla cessazione del rapporto (come nel caso di pretese risarcitorie in cui il comportamento fonte di responsabilità del datore sia sorto in corso di rapporto di lavoro): e ciò da un canto per l'inesistenza di una precisa regola, nell'ordinamento positivo e quindi frutto di scelta consapevole del legislatore, che imponga al lavoratore, in presenza di plurimi crediti, ancorchè derivanti da un medesimo rapporto di durata, di azionarli necessariamente in un unico contesto, ma anche, e dall'altro canto, per la difficoltà di trarre tale regola in via interpretativa da norme processuali dettate ad altri fini e di ergerla a tertium genus (tra prescrizione e decadenza) di limite temporale unificante per l'esercizio di plurime pretese.
11.2. Invero, la pronuncia delle Sezioni Unite attiene alla diversa ipotesi di frazionamento del credito scaturente da un unico rapporto obbligatorio, ossia da un'unica obbligazione, ma tale unicità non è rinvenibile nella diversa ipotesi di presunta unificazione dei diritti (retributivi o risarcitori) derivanti da una pluralità di titoli rispetto ai quali la cessazione del rapporto di lavoro, ove pure costituisca elemento costitutivo delle singole fattispecie, non per questo consente di ritenere esistente un solo rapporto obbligatorio.
12. Pur nella consapevolezza della necessità di una lettura comunitariamente orientata delle norme processuali dell'ordinamento interno, non sembra dunque che, costruendo la violazione dell'obbligo di correttezza e buona fede in senso derivato dall'art. 88 c.p.c., che sancisce l'obbligo per le parti ed i difensori di comportarsi con lealtà e probità, possa pervenirsi ad attribuire al comportamento processualmente sleale la specifica sanzione della improponibilità delle domande successivamente proposte.
12.1. Al contrario di altri ordinamenti, nel nostro il giudice non dispone di poteri "filtranti", ovvero della facoltà di precludere, con un non liquet, il giudizio proposto con finalità scorrette od abusive. E' palese come il nostro ordinamento processuale non consenta - salva una diversa interpretazione eventualmente adottata dalle Sezioni Unite della Corte - una adeguata repressione e prevenzione dei fenomeni di abuso del processo. Tanto meno, ad avviso del Collegio, tale sanzione potrebbe estendersi sino a comportare la consumazione del diritto di azione, ostandovi evidenti ragioni di rilievo costituzionale.
12.2. Se una facoltà di azione è riconosciuta dall'ordinamento, l'esercizio della stessa non integra di per sè gli estremi di una situazione di abuso del processo o di esercizio del diritto in forme eccedenti o devianti rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale, in violazione del principio di lealtà processuale previsto dall'art. 88 cod. proc. civ. e del giusto e sollecito processo stabilito dall'art. 111 Cost. (cfr. Cass. n. 3207 del 2012).
13. Pur nella condivisibile considerazione che porta a ravvisare nell'inutile moltiplicazione delle azioni un abuso del processo, idoneo a gravare il debitore dell'aumento degli oneri processuali, con evidente lievitazione dei costi a carico della parte soccombente, di per sè contrastante con l'inderogabile dovere di solidarietà, che responsabilizza il giudice e le parti alla luce dei principi del giusto processo ispirato al canone della ragionevole durata (art. 111 Cost., comma 2), ad avviso del Collegio, una parziale eliminazione degli effetti distorsivi che derivano dall'abuso dello strumento processuale potrebbe conseguirsi attraverso la valutazione dell'onere delle spese, come se unico fosse stato il procedimento sin dall'origine (v., in proposito, Cass. n, 10634 del 2010; Cass. 5.5.2011, n. 9962).
13.1. In conclusione, ritiene il Collegio che, al di fuori della possibilità ora riferita, non vi siano strumenti per far derivare dalla violazione del dovere di lealtà e probità configurabile nella proposizione di una pluralità di domande a rapporto ormai cessato, per fatti genetici anteriori o che trovano titolo nella cessazione medesima, ancorchè nella consapevolezza del creditore della loro sussistenza, la sanzione della improponibilità delle domande successive alla prima. Gli strumenti che l'ordinamento appresta solo indirettamente possono sanzionare tale comportamento, ma non nei termini della preclusione processuale suddetta.
14. Per tali ragioni il Collegio, ritenendo di non potere condividere l'orientamento di cui alle sentenze sopra menzionate di questa Sezione Lavoro, emesse in controversie del tutto analoghe a quella in esame, ed al fine di prevenire il possibile contrasto giurisprudenziale che scaturirebbe ove il Collegio definisse come sopra la controversia e dovendo, comunque, la questione stessa essere qualificata "di massima di particolare importanza", a norma dell'art. 374 c.p.c., comma 2, anche in ragione del rilievo processuale "trasversale" a più Sezioni, ritiene di dovere rimettere il ricorso al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della Corte.
 
P.Q.M.
 
La Corte rimette il ricorso al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 17 novembre 2015.
Depositato in Cancelleria il 25 gennaio 2016
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