rivalsa INAIL

 
 
L'azione di rivalsa dell'INAIL nei confronti del datore di lavoro e dei soggetti responsabili: cass 17486 del 17 luglio 2013
 
L'azione, esercitata dall'I.N.A.I.L. nei confronti delle "persone civilmente responsabili", per la rivalsa delle prestazioni erogate all'infortunato, nel caso di responsabilità penale accertata nei confronti del datore di lavoro o dei suoi preposti alla direzione dell'azienda o alla sorveglianza dell'attività lavorativa configura - non già un'azione surrogatoria ex art. 1916 c.c., che l'Istituto può esercitare, facendo valere in sede ordinaria il diritto al risarcimento del danno spettante all'assicurato, contro il terzo responsabile dell'infortunio che sia esterno al rischio protetto dall'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro - bensì la speciale azione di regresso spettante ("jure proprio") all'Istituto ai sensi del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, artt. 10 ed 11, che è esperibile non solo nei confronti del datore di lavoro, ma anche verso i soggetti responsabili o corresponsabili dell'infortunio a causa della condotta da essi tenuta in attuazione dei loro compiti di preposizione o di meri addetti all'attività lavorativa, giacchè essi, pur essendo estranei al rapporto assicurativo, rappresentano organi o strumenti mediante i quali il datore di lavoro ha violato l'obbligo di garantire la sicurezza nel luogo di lavoro, senza che a ciò sia di ostacolo la possibile affermazione della loro responsabilità solidale atteso che l'art. 2055 c.c., consente la diversità dei rispettivi titoli di responsabilità (contrattuale per il datore di lavoro ed extracontrattuale per gli altri)" (Cass. sez. un. N. 3288/97)
 

Cassazione civile  sez. lav. 17 luglio 2013 n. 17486
 

L'azione di rivalsa esercitata dall'Inail nei confronti delle persone civilmente responsabili, in caso di responsabilità penale accertata a loro carico a seguito di infortunio sul lavoro, configura una speciale azione di regresso spettante "iure proprio" all'Istituto ai sensi degli art. 10 e 11 d.P.R. n. 1124 del 1965, esperibile non solo nei confronti del datore di lavoro ma anche verso i soggetti responsabili o corresponsabili dell'infortunio.
 
 
riferimenti normativi
Decreto Presidente della Repubblica  -  30/06/1965 , n. 1124

Art. 10.
L'assicurazione a norma del presente decreto esonera il datore di lavoro dalla responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro.
Nonostante l'assicurazione predetta permane la responsabilità civile a carico di coloro che abbiano riportato condanna penale per il fatto dal quale l'infortunio è derivato.
Permane, altresì, la responsabilità civile del datore di lavoro quando la sentenza penale stabilisca che l'infortunio sia avvenuto per fatto imputabile a coloro che egli ha incaricato della direzione o sorveglianza del lavoro, se del fatto di essi debba rispondere secondo il Codice civile.
Le disposizioni dei due commi precedenti non si applicano quando per la punibilità del fatto dal quale l'infortunio è derivato sia necessaria la querela della persona offesa.
Qualora sia pronunciata sentenza di non doversi procedere per morte dell'imputato o per amnistia, il giudice civile, in seguito a domanda degli interessati, proposta entro tre anni dalla sentenza, decide se per il fatto che avrebbe costituito reato, sussista la responsabilità civile a norma dei commi secondo, terzo e quarto del presente articolo (1).
Non si fa luogo a risarcimento qualora il giudice riconosca che questo non ascende a somma maggiore dell'indennità che, per effetto del presente decreto, è liquidata all'infortunato o ai suoi aventi diritto (2).
Quando si faccia luogo a risarcimento, questo è dovuto solo per la parte che eccede le indennità liquidate a norma degli artt. 66 e seguenti (2).
Agli effetti dei precedenti commi sesto e settimo l'indennità d'infortunio è rappresentata dal valore capitale della rendita liquidata, calcolato in base alle tabelle di cui all'art. 39 (3).
(1) La Corte costituzionale, con sentenza 24 aprile 1986, n. 118, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma, nella parte in cui: a) non consente che, ai fini dell'esercizio dell'azione da parte dell'infortunato, l'accertamento del fatto di reato possa essere compiuto dal giudice civile anche nel caso in cui, non essendo stata promossa l'azione penale nei confronti del datore di lavoro o di un suo dipendente, vi sia provvedimento di archiviazione; b) non consente che, ai fini dell'esercizio dell'azione da parte dell'infortunato, l'accertamento del fatto di reato possa essere compiuto dal giudice civile anche nel caso in cui il procedimento penale, nei confronti del datore di lavoro o di un suo dipendente, si sia concluso con proscioglimento in sede istruttoria.
(2) La Corte costituzionale, con sentenza 27 dicembre 1991, n. 485, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma, nella parte in cui prevede che il lavoratore infortunato o i suoi aventi causa hanno diritto, nei confronti delle persone civilmente responsabili per il reato da cui l'infortunio è derivato, al risarcimento del danno biologico non collegato alla perdita o riduzione della capacità lavorativa generica solo se e solo nella misura in cui il danno risarcibile, complessivamente considerato, superi l'ammontare delle indennità corrisposte dall'i.N.A.i.l., nonché dell'art. 11, primo e secondo comma, nella parte in cui consente all'i.N.A.i.l. di avvalersi, nell'esercizio del diritto di regresso contro le persone civilmente responsabili, anche delle somme dovute al lavoratore infortunato a titolo di risarcimento del danno biologico non collegato alla perdita o riduzione della capacità lavorativa generica.
(3) La Corte costituzionale, con sentenza 9 marzo 1967, n. 22, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente articolo limitatamente ai commi terzo e quinto, nella parte in cui essi riproducono le norme dell'art. 4, terzo e quinto comma, del r.d. 1765/1935, anche esse dichiarate incostituzionali con la stessa sentenza. Il terzo e quinto comma del citato art. 4 del r.d. 17 agosto 1935, n. 1765, sono stati dichiarati incostituzionali, il primo nella parte in cui limita la responsabilità civile del datore di lavoro per infortunio sul lavoro derivante da reato, all'ipotesi in cui questo sia stato commesso dagli incaricati della direzione o sorveglianza del lavoro e non anche dagli altri dipendenti del cui fatto debba rispondere secondo il Codice Civile, e il secondo in quanto consente che il giudice possa accertare che il fatto che ha provocato l'infortunio costituisca reato soltanto nella ipotesi di estinzione dell'azione penale per morte dell'imputato o per amnistia, senza menzionare l'ipotesi di prescrizione del reato. Successivamente, la Corte, con sentenza 19 giugno 1981, n. 102, ha dichiarato: a) l'illegittimità costituzionale del combinato disposto dagli artt. 10 e 11, d.p.r. 30 giugno 1965, n. 1124, nella parte in cui preclude in sede civile l'esercizio del diritto di regresso dell'i.N.A.i.l. nei confronti del datore di lavoro qualora il processo penale promosso contro di lui o di un suo dipendente per il fatto dal quale l'infortunio è derivato si sia concluso con sentenza di assoluzione, malgrado che l'Istituto non sia stato posto in grado di partecipare al detto procedimento penale; b) l'illegittimità costituzionale del comma quinto dell'art. 10, d.p.r. n. 1124 del 1965, nella parte in cui non consente che, ai fini dell'esercizio del diritto di regresso dell'i.N.A.i.l., l'accertamento del fatto reato possa essere compiuto dal giudice civile anche nei casi in cui il procedimento penale nei confronti del datore di lavoro o di un suo dipendente si sia concluso con proscioglimento in sede istruttoria o vi sia provvedimento di archiviazione; c) l'illegittimità costituzionale del combinato disposto dagli artt. 11 e 10, d.p.r. n. 1124 del 1965, nella parte in cui dispone che, nel giudizio civile di danno a carico del datore di lavoro per un infortunio di cui sia civilmente responsabile per fatto di un proprio dipendente, l'accertamento dei fatti materiali che furono oggetto di un giudizio penale sia vincolante anche nei confronti del datore di lavoro rimasto ad esso estraneo perché non posto in condizione di intervenire; d) l'illegittimità costituzionale, ex art. 27 legge n. 87 del 1953, del comma quinto dell'art. 10 del d.p.r. n. 1124 del 1965, nella parte in cui non consente che, ai fini dell'esercizio del diritto di regresso dell'i.N.A.i.l., l'accertamento del fatto reato possa essere compiuto dal giudice civile anche nel caso in cui la sentenza di condanna penale non faccia stato nel giudizio civile instaurato dall'i.N.A.i.l.
 
 
Art. 11.
 
L'istituto assicuratore deve pagare le indennità anche nei casi previsti dal precedente articolo, salvo il diritto di regresso per le somme pagate a titolo d'indennità e per le spese accessorie contro le persone civilmente responsabili. La persona civilmente responsabile deve, altresì, versare all'Istituto assicuratore una somma corrispondente al valore capitale dell'ulteriore rendita dovuta, calcolato in base alle tabelle di cui all'art. 39 (1).
La sentenza, che accerta la responsabilità civile a norma del precedente articolo, è sufficiente a costituire l'Istituto assicuratore in credito verso la persona civilmente responsabile per le somme indicate nel comma precedente (1).
L'Istituto può, altresì, esercitare la stessa azione di regresso contro l'infortunato quando l'infortunio sia avvenuto per dolo del medesimo accertato con sentenza penale. Quando sia pronunciata la sentenza di non doversi procedere per morte dell'imputato o per amnistia, il dolo deve essere accertato nelle forme stabilite dal Codice di procedura civile (2).
(1) La Corte costituzionale, con sentenza 27 dicembre 1991, n. 485, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma, nella parte in cui consente all'i.N.A.i.l. di avvalersi, nell'esercizio del diritto di regresso contro le persone civilmente responsabili, anche delle somme dovute al lavoratore infortunato a titolo di risarcimento del danno biologico non collegato alla perdita o riduzione della capacità lavorativa generica.
(2) La Corte costituzionale, con sentenza 19 giugno 1981, n. 102, ha dichiarato: a) l'illegittimità costituzionale del combinato disposto dagli artt. 10 e 11, d.p.r. 30 giugno 1965, n. 1124, nella parte in cui preclude in sede civile l'esercizio del diritto di regresso dell'i.N.A.i.l. nei confronti del datore di lavoro qualora il processo penale promosso contro di lui o di un suo dipendente per il fatto dal quale l'infortunio è derivato si sia concluso con sentenza di assoluzione, malgrado che l'Istituto non sia stato posto in grado di partecipare al detto procedimento penale; b) l'illegittimità costituzionale del combinato disposto dagli artt. 11 e 10, d.p.r. n. 1124 del 1965, nella parte in cui dispone che, nel giudizio civile di danno a carico del datore di lavoro per un infortunio di cui sia civilmente responsabile per fatto di un proprio dipendente, l'accertamento dei fatti materiali che furono oggetto di un giudizio penale sia vincolante anche nei confronti del datore di lavoro rimasto ad esso estraneo perché non posto in condizione di intervenire.


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Giudice del lavoro di Barcellona con sentenza n. 656/2002 condannava F.S. e F.D. al pagamento in favore dell'INAIL della somma di Euro 6.941.75, oltre accessori a titolo di rivalsa delle prestazioni assicurative erogate agli aventi causa di P.S. deceduto mentre lavorava alle dipendenze di F.S. titolare dell'omonima ditta a seguito di folgorazione elettrica che si era trasmessa al braccio dell'autogrù condotta dal F.D. ed attingendo il P. mentre stava posizionando un pannello metallico su detto mezzo operativo.
La Corte di appello di Messina con sentenza del 13.6.2009 rigettava l'appello proposto dal F.S. e dal F.D. ed osservava che la condanna intervenuta in sede penale del datore di lavoro determinava la responsabilità civile dello stesso indipendentemente dall'essere intervenuto l'INAIL in giudizio.
Inoltre aggiungeva che la corresponsione di una somma da parte degli appellanti a tacitazione delle parti civili non aveva rilievo in quanto l'INAIL agiva in sede di regresso e quindi in base ad diversa causale. Osservava ancora che la circostanza relativa al preteso difetto di convivenza a carico non poteva essere opposta all'INAIL in sede di regresso in quanto l'INAIL faceva valere un proprio diritto nascente in relazione al rapporto con i responsabili dell'evento lesivo; sulla somma dovuta spettavano inoltre stante la natura del rapporto,gli accessori.
Per la cassazione di tale sentenza propongono ricorso F. S. e F.D. con tre motivi; resiste l'INAIL con controricorso che ha depositato memoria difensiva ex art. 378 c.p.c..

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo si allega l'omessa ed insufficiente motivazione circa fatti controversi e decisi; nonchè la violazione dell'art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, e art. 118 disp. att. c.p.c.. Era stata corrisposta una somma a totale tacitazione delle pretese delle parti lese nel corso del giudizio penale.
11 motivo appare inammissibile non essendo stato formulato nè il quesito di diritto, nè il cosidetto quesito riassuntivo ex art. 366 bis c.p.c.. In ogni caso la Corte di appello ha già correttamente replicato sul punto che l'elargizione effettuata dall'INAIL per la quale l'Istituto agisce in sede di regresso ha causale diversa dai diritti transatti tra le parti private in sede penale; sul punto non è stata svolta da parte ricorrente alcuna argomentazione volta a contestare in specifico quanto osservato dalla Corte territoriale.
Con il secondo motivo si allega la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 1124, artt. 10, 11 e 106, e degli artt. 1916 e 2697 c.c.. Gli eredi del P. non erano viventi a carico del defunto. Uno dei ricorrenti ( F.D.) non era datore di lavoro, ma il responsabile civile e pertanto allo stesso non era precluso di poter eccepire la qualità di non vivente a carico degli eredi.
Il motivo appare infondato in quanto" l'azione, esercitata dall'I.N.A.I.L. nei confronti delle "persone civilmente responsabili", per la rivalsa delle prestazioni erogate all'infortunato, nel caso di responsabilità penale accertata nei confronti del datore di lavoro o dei suoi preposti alla direzione dell'azienda o alla sorveglianza dell'attività lavorativa configura - non già un'azione surrogatoria ex art. 1916 c.c., che l'Istituto può esercitare, facendo valere in sede ordinaria il diritto al risarcimento del danno spettante all'assicurato, contro il terzo responsabile dell'infortunio che sia esterno al rischio protetto dall'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro - bensì la speciale azione di regresso spettante ("jure proprio") all'Istituto ai sensi del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, artt. 10 ed 11, che è esperibile non solo nei confronti del datore di lavoro, ma anche verso i soggetti responsabili o corresponsabili dell'infortunio a causa della condotta da essi tenuta in attuazione dei loro compiti di preposizione o di meri addetti all'attività lavorativa, giacchè essi, pur essendo estranei al rapporto assicurativo, rappresentano organi o strumenti mediante i quali il datore di lavoro ha violato l'obbligo di garantire la sicurezza nel luogo di lavoro, senza che a ciò sia di ostacolo la possibile affermazione della loro responsabilità solidale atteso che l'art. 2055 c.c., consente la diversità dei rispettivi titoli di responsabilità (contrattuale per il datore di lavoro ed extracontrattuale per gli altri)" (Cass. sez. un. N. 3288/97): la tesi sviluppata al motivo per cui sia invece applicabile l'art. 1916 c.c., non è - quindi - fondata. La documentazione da cui risulterebbe che il P.S. non poteva considerarsi "a carico" in ogni caso non è stata prodotta unitamente al ricorso in cassazione.
Con l'ultimo motivo si allega l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi, nonchè la violazione dell'art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, e art. 118 disp. att. c.p.c., e la violazione dell'art. 112 c.p.c.. La rivalutazione non era stata richiesta e non spettava. Non poteva valere come prova l'attestazione di credito prodotta dall'INAIL;
spettavano i soli interessi dalla domanda come sollevato nell'atto di appello ma senza risposta da parte della Corte territoriale.
Il motivo è infondato alla luce della giurisprudenza di questa Corte secondo la quale il credito relativo al rimborso delle prestazioni eseguite a favore dell'infortunato è di valore e non di valuta (cfr.
Cass. n. 5444/2011, Cass. n. 5935/2008) e pertanto certamente spettavano gli accessori così come ritenuto dal provvedimento impugnato. La Corte territoriale ha anche osservato che l'attestazione aggiornata di credito dell'INAIL in base alla quale è stato rideterminato il credito non è stata oggetto di contestazione per cui le doglianze oggi proposte appaiono tardive; inoltre il documento non è stato prodotto unitamente al ricorso e non viene ricostruito a motivo il calcolo presuntivamente errato accolto dai giudici di merito ed indicata la somma eventualmente correttamente dovuta. Le contestazioni mosse ai criteri di calcolo accolti in primo come in secondo grado appaiono non confortate sul piano documentale e conseguentemente generiche.
Si deve quindi rigettare il proposto ricorso. Le spese di lite - liquidate come al dispositivo - seguono la soccombenza.
 
 
P.Q.M.
 

La Corte:
rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 50,00 per spese, nonchè in Euro 2.500,00 per compensi professionali oltre accessori.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 10 aprile 2013.
Depositato in Cancelleria il 17 luglio 2013
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