Un quadro sulle immunità penali

Approfondimento a cura di

Domenico Di Leo

avvocato del Foro di Trani

 

Nel nostro ordinamento giuridico, l’art. 3 c.p. delimita l’ambito di validità personale della legge penale. Dal precetto normativo si evince che ‘la legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato’; il co. 1 dell’art. 3 c.p., letto in combinato disposto con l’art. 4 co.2, individua cosa deve intendersi con la locuzione ‘territorio dello Stato’, ai fini della legge penale. Con una definizione tautologica, seppur utile a identificare i 3 elementi costitutivi dello Stato inteso in senso moderno (Territorio, Sovranità, Popolazione), le norme succitate definiscono il ‘territorio dello Stato’ come il luogo appartenente alla Repubblica e ogni altro luogo su cui si estende la sovranità dello Stato, comprese le navi e gli aeromobili italiani, eccettuato il caso in cui, in base al diritto internazionale, ad essi è applicabile una legge territoriale straniera. La definizione di territorio incardina l’elemento distintivo dei cittadini rispetto agli stranieri: agli effetti della legge penale, i cittadini sono coloro che appartengono, per origine o per elezione, ai luoghi soggetti alla sovranità dello Stato e gli apolidi che risiedono nel territorio dello Stato, mentre sono stranieri coloro che appartengono alla sovranità di un altro Stato e gli apolidi residenti all’estero. Il principio di obbligatorietà della legge penale, sancito dall’art. 3 c.p., va
considerato un riflesso, in uno Stato moderno, del principio di uguaglianza, sancito dall’art. 3 Cost.


Tuttavia, il principio che ‘tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge, senza distinzione alcuna (cfr. art 3. Cost, co. 1) soffre un’eccezione di non poco momento, eccezione prevista dal secondo periodo del primo comma dell’art. 3, laddove vengono fatte ‘salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o dal diritto internazionale’. In merito alle predette eccezioni, viene subito da pensare alla norma contemplata dall’art. 10 Cost., la quale, nel co. 1, afferma che ‘l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute’. E’ appena il caso di accennare all’aspra diatriba consumatasi negli anni ’60 fra il Giudice delle leggi italiano e la Corte di Giustizia delle Comunità Europee, a proposito del primato del diritto comunitario sulle norme di produzione interna e sui reciproci rapporti, diatriba che si giocò sul ruolo dell’art. 10 e dell’art. 11 Cost. – in base al quale ‘l’Italia, in condizioni di parità con gli altri Stati, consente alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni’ – e che, infine, hanno costituito l’addentellato costituzionale per permettere l’ingresso nel nostro ordinamento giuridico di norme di produzione sovranazionale da parte di organi assolutamente privi di legittimazione democratica, specialmente ai tempi della c.d. ‘politica della sedia vuota’, quando era molto acceso il dibattito sulla delicata questione dei rapporti fra ciascuno Stato nazionale e l’allora Comunità Economica Europea.


Non si può trascurare, in tema di immunità penali, il principio contenuto nella norma di cui al primo comma dell’art. 27 Cost, laddove si afferma che la responsabilità penale è personale. Prima di entrare nel merito della natura delle immunità penali, occorre premettere che l’ordinamento giuridico italiano irroga la sanzione criminale, a seguito di un processo nel quale sia assicurato il rispetto delle garanzie costituzionali, all’autore del fatto tipizzato dalla norma incriminatrice, in assenza di cause di giustificazione. Il principio appena tratteggiato è contenuto in una norma costituzionale e questo non è un caso: in sede di lavori preparatori, i padri costituenti ritennero opportuno introdurre siffatto principio per evitare che, nella nascente Repubblica, potessero verificarsi rappresaglie – comprensibili dal punto di vista umano ma inaccettabili dal punto di vista giuridico – ai danni degli ex esponenti del passato regime, sia gerarchi che semplici fiancheggiatori, i quali venivano ritenuti responsabili, per il solo fatto di appartenere al partito di maggioranza – rectius, l’unico partito – delle stragi commesse successivamente al 27 luglio 1943, durante gli ultimi anni di vita del regime, e divenute tristemente note (Fosse Ardeatine, Marzabotto, Sarzana, via Rasella…). Affermare, dunque, che soltanto colui che, all’esito di un processo penale risulti essere l’autore del fatto tipico, va assoggettato a pena significa enunciare due principi: la legge penale vincola tutti (cfr. art. 3 c.p.); il pubblico ministero ha l’obbligo dell’azione penale (cfr. art. 50 c.p.p.). Di sicuro, le immunità penali non rappresentano l’unica eccezione a tali principi esistente nel diritto penale italiano; un cenno meritano le cause di giustificazione (dette altrimenti cause di esclusione dell’antigiuridicità) che sono situazioni normativamente previste in presenza delle quali l’autore del fatto tipico non è assoggettato a pena perché non sussiste il contrasto tra il fatto tipizzato dalla norma incriminatrice e l’intero ordinamento giuridico. In queste ipotesi è il legislatore che interviene prevedendo quali sono le ipotesi scriminate anche se negli ultimi decenni sono sorti dubbi sull’esaustività del catalogo delle scriminanti presenti nel codice penale, in quanto si è fatta strada la tesi in base alla quale esistono altre scriminanti non codificate.

Le eccezioni individuate dall’art. 3 c.p. vengono preferibilmente definite, dalla giurisprudenza e dalla dottrina dominanti, ‘immunità penali’ in luogo di ‘prerogative’; con tale lemma si vuol fare riferimento a una congerie di situazioni disomogenee e irriducibili ad unità, per ratio, fonti, contenuto e forma, il cui effetto finale comune è l’inibizione del potere punitivo dello Stato: infatti, i c.d. ‘immuni’ sono sottratti all’applicazione della sanzione che, tuttavia, continua a vincolare tutti alla sua osservanza. La norma penale continua ad essere coercitiva nei confronti di tutti ma gli ‘immuni’ non subiscono la sanzione penale che l’ordinamento giuridico ricollega alla commissione di un fatto tipico, colpevole e non assistito da una causa di giustificazione.

Oltre l’effetto finale, le immunità non hanno elementi in comune che consenta la ricostruzione delle medesime in termini di vera e propria categoria dogmatica, la quale, al di là del nomen juris, per essere tale, deve avere la capacità di poter aggregare al suo interno elementi e situazioni che, seppur disomogenei, siano tuttavia contraddistinti da un nucleo significativo comune che vada al di là del solo effetto finale, che si sostanzia per taluni soggetti determinati di andare esenti dalle conseguenze penali astrattamente previste e collegate a comportamenti tipici. Anche sull’elemento comune vi è confusione: non e chiaro se l’effetto delle immunità penali si esaurisca nel campo del diritto penale sostanziale o in quello del diritto penale processuale o in entrambi; se l’esplicarsi dell’effetto è autonomo e cumulativo o se l’uno segue l’altro; se gli effetti preclusivi siano durevoli temporanei, se cioè sono destinati ad esaurirsi con la cessazione della carica o a protrarsi oltre.

Secondo l’approccio tradizionale, la trattazione unitaria è possibile laddove si rifletta sulla circostanza che, il più delle volte, la posizione giuridica di determinati soggetti emerge solo in relazione al combinarsi degli effetti connessi ai diversi tipi di immunità. Tradizionalmente, si è soliti distinguere le immunità:


- in base all’oggetto: si parlerà di immunità assolute (o generali) o relative (o parziali ospeciali) a seconda che esse si estendono a tutti i reati o soltanto ad alcuni (ambitopplicativo);


- in base all’ampiezza dell’effetto c.d. ‘immunizzante’: si distinguono le immunità ‘prefunzionali’, ‘funzionali’ ed ‘extrafunzionali’ a seconda del grado di connessione fra l reato e la funzione e della rilevanza o meno della ‘durata’ dell’ufficio ai fini dell’inapplicabilità della sanzione penale o della non sottoponibilità dell’immune ll’accertamento processuale, dovendosi distinguere fra i reati commessi prima, durante o al di fuori dell’esercizio delle funzioni attribuite all’immune;


- in ‘immunità sostanziali’ e ‘immunità processuali’, a seconda che siano riferite agli atti compiuti, alle opinioni espresse e ai voti dati nell’esercizio di funzioni o se riferite ad atti compiuti fuori dall’esercizio delle funzioni e perseguibili al momento della cessazione della carica; secondo altra dottrina, la distinzione si gioca in punto di esenzione da pena o misura di sicurezza o esenzione soltanto dalla giurisdizione: non è agevole la distinzione anche se il criterio distintivo può individuarsi nell’effetto inibitorio nel senso che se la sanzione per i fatti commessi durante il periodo della carica pubblica – da cui trae origine l’immunità – non può essere irrogata anche dopo la cessazione della carica, si deve ritenere che l’immunità abbia carattere sostanziale;


- in base alla fonte giuridica, si distinguono le immunità di diritto pubblico interno e le immunità di diritto internazionale.

L’art. 3 c.p., riconoscendo le immunità penali, rappresenta il condensato della riflessione penalistica del ’30: infatti, attraverso la previsione delle guarentigie, in materia penale, e ancorandone il fondamento nel diritto pubblico interno e nel diritto internazionale, il legislatore dell’epoca ha effettuato un bilanciamento fra due interessi confliggenti, bilanciamento che poi è stato assicurato in maniera più ampia dalla Carta costituzionale: da un lato, il rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento e dei diritti inalienabili della persona richiede che l’autorità giudiziaria non rimanga inerte di fronte agli illeciti per ragioni di giustizia e di soddisfacimento delle vittime (in questo senso, anche il principio processualpenalistico dell’obbligatorietà dell’azione penale da parte del pubblico ministero, principio che confligge con le recenti spinte riformatrici in vista dell’introduzione nel processo penale della c.d. mediazione); dall’altro lato, l’esigenza di tutela di particolari funzioni costituzionali o delle relazioni internazionali, fonte dei rapporti amichevoli ed economici fra le nazioni, impone una limitazione della potestà punitiva statuale, nelle forme ritenute più idonee in relazione alla consistenza dell’interesse confliggente protetto. E’appena il caso di accennare che le immunità non rappresentano affatto un privilegio per la persona fisica cui si riferiscono ma di prerogative inerenti la funzione esercitata e, quindi, valide solo nei limiti tassativamente fissati dalla legge.
Le immunità che derivano dal diritto pubblico interno, quindi, mirano a garantire l’espletamento di determinate funzioni o uffici di particolare importanza per il corretto funzionamento del nostro sistema politico.


La forma del nostro Stato è quella repubblicana e, in base all’art. 139 Cost., essa ‘non puòessere oggetto di revisione costituzionale’. Nel contesto degli equilibri descritti dalla Carta costituzionale, ispirato alla logica c.d. dei ‘pesi e contrappesi’, la figura più importante e maggiormente ispirata al senso dell’equilibrio politico – atteso che la nostra forma di governo è di tipo parlamentare – è senza dubbio il Presidente della Repubblica. Il Titolo II della Parte II della Carta costituzionale, relativa all’Ordinamento della Repubblica, è dedicato alla figura del Presidente della Repubblica e ne tratteggia la disciplina in 9 articoli. L’art. 90 Cost. afferma testualmente che ‘il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. In tali casi è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri’. In tal caso, si tratta di un’immunità di tipo funzionale (o parziale, se si adotta il criterio del riparto dell’ambitoapplicativo) che attiene soltanto all’esercizio dei poteri e delle competenze previste dettagliatamente dall’art. 87 Cost., a differenza di quanto lo Statuto Albertino prevedeva per la figura del Re, qualificato dall’art. 3 del medesimo Statuto come ‘persona sacra e inviolabile’ e perciò insuscettibile di divenire centro di imputazione di reati e di sanzioni penali. La sacralità e l’inviolabilità del sovrano avevano, in diebus illis, una portata tanto vasta che, per ribadirne la valenza, fu mutato il nome di una città lucana – da Salvia di Lucania in Savoia di Lucania – città che aveva dato i natali all’anarchico Giovanni Passannante (il suo cranio e il suo cervello furono oggetto di studio del Lombroso e furono esposti al museo Criminologico della capitale, fino al 2007, quando finalmente i resti del Passannante furono traslati nel cimitero di Salvia di Lucania, tra molte e inutili polemiche e senza rito funebre) il quale, il 17 novembre 1878, a Napoli, aveva attentato alla vita del sovrano Umberto I, il quale riportò solo lievi ferite (fu per lui fatale l’attentato del marzo 1900, nel quale trovò la morte per mano dell’anarchico Gaetano Bresci) mentre il Passannante venne condannato alla pena di morte, poi commutata nella pena detentiva vita natural durante, scontata negli ultimi anni in un manicomio toscano.

Era questo un modo per sottolineare che nel Meridione d’Italia, unificata da poco meno di un quarantennio, dominava Casa Savoia, dominio che ancora alla fine dell’800 – come sopravvive nei canti dell’epoca – era fortemente messo in discussione dalle divisioni di briganti filoborbonici e filo- pontifici (era il tempo del non expedit di papa Leone XIII), proprio in funzione antagonista alla casa Savoia. Addirittura, negli Stati preunitari e, in particolare nel Regno delle Due Sicilie, il reato di lesa maestà era punito con la pena di morte. In questo reato, la soglia punitiva era anticipata al tentativo: vittima ‘eccellente’ di questo delitto – di opinione, pare – fu il giovane Emanuele De Deo, giovane studente di giurisprudenza, di Minervino Murge, presso l’ateneo partenopeo, il quale fu impiccato all’età di 22 anni, il 18 ottobre 1794 in piazza del mercato a Napoli, con l’accusa - in base ad una delazione indimostrata - di aver cospirato alla vita del re Ferdinando IV di Borbone, insieme ad altri esponenti della Repubblica Partenopea (tra gli altri, Mario Pagano, Eleonora De Fonseca Pimentel).


Il Presidente della Repubblica sarà sottoposto alla coercizione della legge penale con riferimento agli atti non compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, essendo in tal caso egli equiparato a qualunque cittadino; nessun valore giuridico può essere attribuita alla sua posizione formale di superiorità rispetto agli altri poteri dello Stato e alla giurisdizione e soltanto mere valutazioni politiche e di correttezza costituzionale possono evitare che il Presidente sia perseguito per reati commessi al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni. In tal senso, si pone il problema di individuare il nesso funzionale a proposito delle c.d. ‘esternazioni presidenziali’: esse costituiscono l’esercizio della libertà di manifestare il proprio pensiero da parte del Capo dello Stato e, a stretto rigore, non rientrano tra le funzioni tipiche di cui all’art. 87 Cost. E’ dominante la tesi secondo la quale la funzionalità degli atti di esternazione è in re ipsa, almeno fino a quando la manifestazione del pensiero persegue un interesse pubblico, da valutarsi nell’ambito del contesto politico nel quale la stessa esternazione è fatta. Se manca la finalità pubblicistica, le esternazioni esulano dagli atti funzionali.


L’art. 90 Cost. individua due ipotesi in cui la responsabilità del Capo dello Stato è piena e cioè in caso di ‘alto tradimento’ e di ‘attentato alla Costituzione’. Incertezza vi è in ordine alla portata delle predette locuzioni: mentre per la prima espressione manca una disposizione che indichi gli estremi dell’alto tradimento, la seconda è presente nell’art. 283 c.p. Tuttavia, il principio di legalità impedisce che tale norma si applichi sic et simpliciter al Presidente della Repubblica; infatti, la previsione normativa di cui all’art. 283 c.p. descrive un delitto comune, mentre la carica presidenziale connoterebbe un delitto proprio. Due sono le tesi che si contendono il campo: l’indirizzo prevalente ritiene che per meglio comprendere il concetto di ‘attentato alla costituzione’ occorre fare riferimento alla norma contenuta nell’art. 283 c.p., mentre per il concetto di ‘alto tradimento’ soccorre la norma di cui all’art. 77 c.p.m.p. che richiama una serie di delitti previsti e puniti dal codice penale, tranne che l’art. 283 c.p. e quelle ipotesi in cui il Presidente della Repubblica assume la veste di soggetto passivo del reato. La tesi minoritaria sostiene, al contrario, che le ipotesi in esame si sostanziano in fattispecie di reato a fonte costituzionale il cui fondamento è rappresentato dall’art. 91 Cost, il quale impone al Presidente della Repubblica di ‘prestare giuramento di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione’: tale norma indica in positivo ciò che l’alto tradimento esprime in negativo. In ogni caso, quale che sia la tesi preferita, è l'opinione comune che esistono insopprimibili esigenze di legalità e di certezza giuridica che impongono che si individui preventivamente un precetto che, in relazione all’art. 15, l.c. 11 marzo 1953, n.1, che si limita a prevedere una sanzione penale per i reati di alto tradimento e di attentato alla Costituzione ‘nei limiti del massimo di pena previsto dalle leggi vigenti al momento del fatto’.

Mentre non vi sono dubbi sulla insussistenza di alcuna prerogativa di natura ‘sostanziale’ per l’attività extrafunzionale, penalmente rilevante, del Presidente della Repubblica, maggiori perplessità emergono, nel silenzio della Grundnorm, in ordine alla possibilità di questi di invocare particolari guarentigie di natura processuale, al fine di ottenere un’esenzione, sia pur temporale, dalla giurisdizione. Alla luce delle norme contenute negli artt. 9 comma 3 e 10 comma 1 della l, 5 giugno 1989, n. 219, il Parlamento in seduta comune, qualora ritenga che il reato sia diverso da quelli previsti dall’art. 90 Cost., dichiara la propria incompetenza e trasmette gli atti all’autorità giudiziaria la quale, se dissente dalla dichiarazione di incompetenza del Parlamento, ordina la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale per la risoluzione del conflitto; da questo assunto normativo, sembra potersi agevolmente escludersi la sussistenza di qualsiasi impedimento di tipo processuale, ancorchè temporalmente correlato alla durata del mandato, che renda il Capo dello Stato non assoggettabile alla giurisdizione ordinaria per i fatti penalmente rilevanti commessi al di fuori dell’esercizio delle proprie funzioni. La riprova di quanto appena affermato sta nel fatto che l’art.1 l. 20 giugno 2003, n.140 – c.d. Lodo Schifani, ex Lodo Maccanico – benché dichiarato incostituzionale dal Giudice delle Leggi con la pronuncia n. 24 del 20 gennaio 2004 per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., voleva introdurre, nell’ordinamento giuridico italiano, una norma che prevedesse un’esenzione temporanea dalla giurisdizione e una sospensione dei processi in corso, durante l’espletamento del mandato, per le più alte cariche istituzionali dello Stato, per fatti di reato anche extrafunzionali e/o prefunzionali; non avrebbe senso introdurre una norma siffatta se già esistesse.

Le guarentigie previste per il Capo dello Stato si estendono al Presidente del Senato, quando esercita le funzioni di Presidente della Repubblica, per tutto il tempo della durata della supplenza.

 

L’art. 68 Cost., al primo comma, prevede che ‘i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni’. Tale previsione mira a garantire il libero esercizio della funzione parlamentare e a rafforzare il divieto di mandato imperativo, sancito dall’art. 67 Cost. Questa è un’immunità c.d. assoluta, in quanto esclude ogni forma di responsabilità, sia civile che penale, e si discute dell’ampiezza della tutela costituzionale.

Si registra la presenza di due tesi: secondo la tesi ‘restrittiva’, nell’alveo della guarentigia rientrano le opinioni espresse – e lo stesso per tutte le c.d. attività intra moenia – nell’esercizio di atti istituzionali ‘tipici’, univocamente riconosciuti come propri della funzione parlamentare mentre la tesi ‘estensiva’ afferma che la garanzia de qua abbraccia ogni manifestazione del pensiero, anche se atipica e informale, posta in essere nell’ambito dei rapporti generali con l’opinione pubblica e l’elettorato. Tale dualismo dottrinale ha avuto la sua eco nella giurisprudenza di legittimità la quale, sin dagli anni ’90, ha tentato di ricostruire il significato e la portata dell’espressione ‘esercizio di funzioni’, di portata costituzionale ma fatta oggetto di 19 decreti legge mai convertiti, emanati a seguito della l. cost. 29 ottobre 1993, n.3, nel tentativo di dare attuazione all’art. 68, comma 1. La l. cost. n. 3/93 ha riformato l’art. 68 Cost, intervenendo in particolar modo sull’istituto dell’autorizzazione a procedere, circoscritta a limitate e tassative categorie di atti (cfr. art. 68 commi 2 e 3 Cost.). Evidenziando la necessità della rigorosa ‘connessione’ tra il fatto commesso e la funzione esercitata, la Corta Costituzionale si è orientata nel senso di ritenere applicabile l’art. 68 Cost agli atti c.d. ‘atipici’ o ‘extra moenia’ qualora risulti una ‘sostanziale corrispondenza’ e una ‘ contestualità cronologica’ tra l’opinione espressa, ritenuta lesiva dell’onore, e un atto parlamentare tipico. In sostanza, la dichiarazione esterna sarebbe coperta dalla garanzia soltanto quando sia meramente riproduttiva di un atto tipico interno. In questo contesto, dottrinario e giurisprudenziale, è intervenuta la legge 20 giugno 2003, n. 140 il cui art. 3 comma 1 (lodo Schifani) ha inteso dare finalmente attuazione al dettato dell’art. 68 Cost., per renderlo immediatamente operativo sul piano processuale. Prevede infatti il predetto art. 3 che l’immunità deve applicarsi non soltanto agli ‘atti tipici’, quali le opinioni espresse nell’esercizio delle ‘funzioni parlamentari tipiche’, ma anche ad ogni altro ‘atto atipico’, di divulgazione, di denuncia politica, di ispezione o di critica, espletati al di fuori delle sede parlamentare, che sono coperti dalla garanzia dell’insindacabilità purchè siano connessi dalla funzione parlamentare. La genericità della formula legislativa non ha risolto la questione dal punto di vista normativo, rimettendo all’interprete il delicato compito di intendere il significato del lemma ‘connessione’ a seconda dell’orientamento – dottrinario e giurisprudenziale – che si ritiene di preferire. Alcune Corti di merito hanno ritenuto che la legge ordinaria estendesse in maniera illegittima – dato il diverso rango delle fonti normative delle immunità di cui si tratta - l’ambito della insindacabilità dei parlamentari.

Con la pronuncia n. 120 del 16 aprile 2004, il Giudice delle Leggi, in maniera non del tutto chiara, ha affermato che la norma tacciata di incostituzionalità (art. 3 co. 1 lodo Schifani) si è soltanto limitata a rendere esplicito il contenuto della norma costituzionale (art. 68 Cost.) perché l’estensione agli atti non tipici deve sempre risultare in connessione con l’esercizio di funzioni parlamentari che rappresentano, da un lato, il presidio delle prerogative parlamentari e, dall’altro, del principio di uguaglianza e dei diritti dei terzi.

Abolito l’istituto dell’autorizzazione a procedere, i parlamentari, in base alla lettera dell’art. 68 comma 2 Cost. non possono, senza autorizzazione della Camera di appartenenza, essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza. Analoga autorizzazione, continua l’art. 68 Cost., al comma 3, è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza. La ratio della c.d. improcedibilità, in caso di mancata autorizzazione della Camera di appartenenza, consiste in una prerogativa processuale ed è limitata al periodo di permanenza della carica. Il fondamento di tali tradizionali garanzie della libertà personale e dei nuovi limiti all’attività di indagine, viene individuato nella necessità di salvaguardare l’indipendenza del Parlamento, in sé e nella persona dei singoli deputati, nell’ottica della separazione dei poteri, in un moderno Stato di diritto, e in vista dell’esigenza di sottrarre i parlamentari a procedimenti squisitamente persecutori. Pur tuttavia, va evidenziato che, se, da un lato, si vuol proteggere l’attività del Parlamento e dei singoli componenti da indebite influenze da parte della magistratura, è altrettanto vero che, in mancanza di criteri di riferimento stabili e normativamente previsti, continua ad essere difficile bilanciare in modo equilibrato i diversi interessi in gioco, interessi contrastanti ed equiordinati: se è vero che i parlamentari meritano protezione da arbitrari interventi da parte della magistratura è parimenti vero che questa protezione rischia di affermarsi a scapito dell’interesse, parimenti rilevante sul piano dei valori costituzionali, a una pronta ed efficace repressione dei reati.

I giudici della Corte Costituzionale godono, per effetto dell’art. 3 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n.1, dell’immunità analoga a quella dei parlamentari, con esclusione della rerogativa di cui all’art. 68 comma 3 Cost. L’autorizzazione a procedere è data dalla medesima Corte.

In base all’art. 122 comma 4 Cost., i membri dei consigli regionali godono soltanto della garanzia dell’irresponsabilità per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni.

Benchè voci isolate in dottrina hanno cercato di estendere ai consiglieri regionali le prerogative di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 68 Cost., l’orientamento maggioritario nega l’estensione, in via analogica, delle guarentigie parlamentari.

Gli appartenenti al Consiglio Superiore della Magistratura non rispondono per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni, ai sensi dell’art. 5 legge 3 gennaio 1981, n.1. in base alla norma dell’art. 3 c.p., la fonte delle immunità può rinvenirsi anche nel diritto internazionale, dovendosi intendere con questa espressione tanto le norme del diritto internazionale ‘generalmente riconosciuto’, cui l’ordinamento giuridico italiano si adegua automaticamente, senza il ricorso a norme interne di adattamento, per effetto dell’art. 10 Cost., quanto le norme contenute nei trattati e le convenzioni internazionali i quali diventano esecutivi in Italia a seguito di ratifica a mezzo di un atto normativo interno. Tuttavia, il carattere rigido della Carta costituzionale e il principio della sovranità popolare impediscono che l’adeguamento automatico previsto dall’art. 10 Cost. possa consentire la violazione dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale.


Il fondamento delle immunità di diritto internazionale va ricercato nel reciproco riconoscimento tra Stati dell’altrui sovranità, in quanto uno Stato rinuncia al vigore delle proprie norme interne nei confronti di determinati soggetti che rappresentano lo Stato estero.

La persona del sommo pontefice è considerata ‘sacra e inviolabile’ – esattamente come prevedeva l’art. 3 Statuto Albertino – dall’art. 8 Trattato del Laterano. Si tratta di una immunità assoluta, che affonda le sue radici nella Storia – la breccia di Porta Pia, il XX settembre 1871, la legge delle guarentigie – dell’annessione dello Stato della Chiesa al neonato Regno d’Italia; essa è riconosciuta al pontefice non solo quale figura di capo di uno Stato estero ma anche come massimo esponente della cristianità.

I capi di Stato esteri e i Reggenti che, in tempo di pace, si trovano nel territorio dello Stato beneficiano di un’immunità assoluta che si estende al seguito e ai loro familiari.

Il presidente del consiglio dei ministri e i ministri per gli affari esteri godono dell’immunità per tutti i fatti commessi nell’esercizio delle loro funzioni.


Gli agenti diplomatici godono dell’immunità penale assoluta dello Stato accreditato e dell’esenzione da ogni misura esecutiva, in base all’art. 31 della Convenzione di Vienna del 18 aprile 1961. Il medesimo status è riconosciuto ai membri conviventi e alle loro famiglie. Il personale di rango inferiore delle rappresentanze diplomatiche gode, invece, di un’immunità funzionale.


I funzionari internazionali godono della sola immunità funzionale connessa agli atti compiuti nell’esercizio delle loro funzioni; la fonte dell’immunità va rinvenuta nei trattati internazionali.

In base al Protocollo di Bruxelles dell’8 aprile 1965, i parlamentari europei godono della prerogativa dell’irresponsabilità e delle immunità riconosciute ai membri del Parlamento del loro Paese, nonché, sul territorio di ogni Stato membro, dell’esenzione da ogni provvedimento di detenzione o da procedimenti giudiziali, per la durata delle sessioni dell’assemblea.


I consoli beneficiano dell’immunità se ciò è stabilito dai trattati internazionali fra l’Italia e gli altri Stati.


L’art. 19 del Trattato del Laterano stabilisce che gli agenti diplomatici e gli inviati dei governi presso la Santa Sede godono delle stesse immunità degli agenti diplomatici presso lo Stato italiano.

Sono garantiti dall’immunità i giudici della Corte dell’Aja, in base a quanto stabilito dall’art. 19 dello Statuto della Corte medesima e, in misura ridotta, la stessa immunità sussiste per i giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo (art. 2 Protocollo addizionale all’accordo sui privilegi e immunità del Consigli od’Europa).

La convenzione del 15 giugno 1951, stipulata fra gli Stati dell’alleanza atlantica, ha stabilito che godono dell’immunità i membri e le persone al seguito delle forze armate della NATO di stanza nel territorio italiano che sono soggetti alle leggi e alla giurisdizione militare dello Stato di appartenenza.

Anche i militari stranieri che si trovano sul territorio dello Stato italiano, con previa autorizzazione, godono di immunità.

Un cenno merita la questione relativa alla natura giuridica delle immunità. Il problema non è di poco momento perché dalla soluzione dipende la collocazione della relativa categoria dogmatica – nei limiti in cui è possibile parlare di categoria dogmatica - nel sistema del diritto. Tante sono le differenti teorie avanzate sul punto. Intanto vanno respinte quelle teorie che tendono a considerare le immunità come eccezioni al principio di obbligatorietà della legge penale, sancito dall’art. 3 c.p., dovute alla particolare qualifica dei soggetti che non sarebbero destinatari dei precetti penali, perché esse sono contraddette dalle fonti normative costituzionali (artt. 54 e 91 Cost.) e internazionali (artt. 41 e 55 Conv. Vienna) che stabiliscono che anche i c.d. immuni sono tenuti al rispetto della legge.

Stessa censura va mossa nei confronti degli indirizzi dottrinali che propugnano la categoria dell’incapacità penale, intendendosi per capacità penale l’attitudine alla titolarità delle situazioni giuridiche sfavorevoli, perché, da un lato, si escludono dal novero dei destinatari della norma penale alcuni soggetti insuscettibili di osservare la norma penale e di soggiacere alle conseguenze sfavorevoli derivanti dall’inosservanza e, dall’altro, perché si crea una categoria dogmatica – gli incapaci – inutile a spiegare le ragioni della scelta del legislatore di sottrarli all’applicazione della pena.

Un punto di partenza ‘coerente’ con l’eterogeneità delle immunità è rappresentato dalla distinzione fra immunità extrafunzionali ed immunità funzionali. Le prime, originando esclusivamente dal diritto internazionale, sono finalizzate a evitare che un soggetto, il quale agisca per conto dello Stato di appartenenza, subisca un processo da parte di una Stato straniero per un fatto attinente alla sua vita privata ma commesso in costanza di carica. E’ evidente la natura ‘processuale’ delle immunità le quali si sostanziano in mere esenzioni dalla giurisdizione dello Stato in cui l’immune si trova ad operare, limitate nel tempo al periodo di durata della missione. Le immunità funzionali hanno natura sostanziale (se derivano dal diritto internazionale comportano anche l’esenzione dalla giurisdizione) e perciò rientrano fra le cause personali di esclusione della pena: il fatto commesso dall’immune è un fatto di reato, tipico e perciò perseguibile ma, per ragioni di opportunità correlate al libero esercizio di rilevanti funzioni in ambito costituzionale o internazionale, non viene sanzionato.

Quanto appena detto merita una esemplificazione. Se si pensa alle immunità ex art. 68 comma 1 Cost., applicando le due teorie alternativamente, si giunge a risultati opposti.

Per la dottrina (Mantovani, uber alles) l’immunità in oggetto costituisce una causa soggettiva di esclusione della punibilità, espressamente prevista dall’ordinamento giuridico a tutela della funzione parlamentare, che lascia sussistere integra l’illiceità penale del fatto. Da tale assunto, deriva che è configurabile la responsabilità dell’extraneus per l’illecito commesso in concorso con il parlamentare essendo l’immunità circostanza riferibile al solo soggetto immune, di cui non può giovarsi il concorrente (ma anche Cass. pen., 11 aprile 2008, n. 15323 che ha affermato la responsabilità del direttore del giornale che, violando il precetto dell’art. 57 c.p., non ha impedito la pubblicazione della notizia diffamatoria, riportando l’intervista del parlamentare).

Per la giurisprudenza di legittimità, l’immunità ex art. 68 Cost. costituisce causa di giustificazione che rende lecita la condotta. Partendo da questo diverso presupposto, in base alle norme sul concorso di persone (art. 119 c.p.), va esclusa la responsabilità dell’extraneus perché l’immunità rende lecita la condotta anche per tutti i concorrenti (così, Cass. pen., 24 novembre 2006, n. 38944 che ha assolto il direttore di una testata radiotelevisiva, il quale, secondo l’accusa, aveva patrocinato l’intervista al parlamentare che aveva rilasciato dichiarazioni diffamanti: essendo queste scriminate dall’art. 51 c.p., non sussiste illiceità del fatto neppure in capo al direttore).

Sul punto non vi è accordo: si afferma infatti che considerare le immunità come scriminanti vuol dire confondere la funzione – l’esercizio del potere/dovere a tutela di un pubblico interesse – e il reato – che non può consistere né nell’esercizio di un diritto né adempimento di un dovere. La
violazione della legge penale non è utile né necessaria al corretto esercizio delle funzioni e nessuna legge autorizza o obbliga gli immuni a tenere certi comportamenti.

Bibliografia:
Voce ‘Immunità’ (dir. pen.), in Il Diritto – Enciclopedia Giuridica, Corriere della sera & Sole 24 Ore, a cura di Bellagamba Filippo;
Voce ‘Immunità’ (dir. pen.), in Enc. Giur., XIV, Roma, 1989;
Fiandaca G. – Musco E., Diritto Penale. Parte generale, V ed., Bologna, 2007.

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