revoca fido e risarcimento del danno

revoca fido e risarcimento del danno: la facoltà di revocare ad nutum l'affido concesso da una banca deve essere esercitata nel rispetto di principi di correttezza e buona fede in difetto spetta il risarcimento del danno
 
La questione che si pone all'attenzione della Suprema Corte e che dalla medesima viene risolta con la sentenza n 21250/08 è se la revoca dell'affido disposta da un istituto bancario possa considerarsi illegittima per la violazione dei principi di correttezza e buona fede, nonostante la previsione contrattuale di una libera recedibilità dal contratto.
La soluzione cui perviene la Corte è quella della sindacabilità sotto il profilo della correttezza e buona fede della revoca dell'affido da parte dell'istituto bancario nonostante la previsione contrattuale della libera recedibilità
La Corte ha, infatti, riconosciuto che l'esercizio del diritto di recesso, contrattualmente stabilito, deve essere valutato nel complessivo contesto dei rapporti intercorrenti tra le parti, onde accertare se detto recesso sia stato o meno esercitato secondo modalità e tempi che non rispondono ad un interesse del titolare meritevole di tutela, ma soltanto allo scopo di arrecare danno all'altra parte, incidendo sulla condotta sostanziale che le parti sono obbligate a tenere per preservare il reciproco interesse all'esatto adempimento delle rispettive prestazioni (Cass. 16.10.2003, n. 15482).
E più in generale si è affermato che il principio di correttezza e buona fede, deve essere inteso in senso oggettivo ed enuncia un dovere di solidarietà, fondato sull'art. 2 Cost., che, operando come un criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell'imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. Dalla violazione di tale regola di comportamento può discendere "ex se", ove provato, un danno risarcibile (Cass. 27.10.2006, n. 23273; Cass. 28.9.2005, n. 18947; Cass. 11.2.2005, n. 2855).
Va in particolare sottolineato come la Corte abbia affermato che la clausola di buona fede nell'esecuzione del contratto opera come criterio di reciprocità, imponendo a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra e costituisce un dovere giuridico autonomo a carico delle parti contrattuali, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da norme di legge; ne consegue che la sua violazione costituisce di per sè inadempimento e può comportare l'obbligo di risarcire il danno che ne sia derivato (Cass. 11.2.2005, n. 2855).
 

 
Cassazione civile  sez. I 06 agosto 2008 n. 21250

Il principio di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, espressione del dovere di solidarietà, fondato sull'art. 2 cost., impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra e costituisce un dovere giuridico autonomo a carico delle parti contrattuali, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da norme di legge; ne consegue che la sua violazione costituisce di per sé inadempimento e può comportare l'obbligo di risarcire il danno che ne sia derivato. (Nella specie la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, discostandosi da tale principio, aveva escluso che l'improvvisa revoca da parte della banca di un affidamento potesse essere qualificato come illegittimo o potesse in ogni caso costituire titolo per l'azione di danni).


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
 
P.E. conveniva in giudizio la Cassa di Risparmio di Orvieto spa e M.G. chiedendone la condanna in solido al risarcimento dei danni in quanto il suo stato di insolvenza, cui era seguito il 23.2.1996 il fallimento, era stato determinato dall'improvvisa e brutale revoca dell'affidamento da parte della banca, imitata da altri istituti di credito, mentre il M., che era anche il suo commercialista, quale Presidente della banca aveva omesso di rappresentare alla banca stessa l'effettiva consistenza del patrimonio di esso P., idonea a garantire la soddisfazione di ogni credito.
Chiamato in causa il curatore del Fallimento, rimasto contumace, il Tribunale di Orvieto respingeva le domande, rilevando che la legittimità del recesso della banca risultava dalla mancata opposizione ai decreti ingiuntivi richiesti dalla banca stessa e alla dichiarazione di fallimento. Non vi era prova di un comportamento illecito del M..
La Corte di appello di Perugia con sentenza 6.4.2003 respingeva l'appello del P.. Osservava la Corte che l'appellante aveva sostenuto che le modalità di esercizio del recesso non erano illegittime, ma costituivano violazione dei principi della buona fede contrattuale e che per tale ragione gli era dovuto il risarcimento dei danni. In tali termini l'appello era contraddittorio perchè la violazione dei doveri di correttezza e buona fede, ove non considerati in forma primaria ed autonoma da una norma di legge, non poteva essere reputata illegittima e fonte di responsabilità ove al tempo non concretizzasse violazione di un diritto altrui.
Il comportamento sotteso alla dichiarazione di recesso non poteva aver rilievo autonomo, ma soltanto in quanto causa dell'illegittimità del recesso stesso. L'appellante aveva peraltro riconosciuto che il recesso era legittimo, sì che sul punto si era formato il giudicato.
Il rigetto dell'appello in ordine alla responsabilità della banca comportava anche il rigetto del gravame in ordine all'assoluzione del M. dalle pretese del P.. Questi d'altra parte non poteva farsi promotore degli interessi della banca che, nella sua prospettazione, sarebbero stati obliterati dall'appellato che, nella sua qualità di presidente dell'istituto bancario, avrebbe omesso di far presente la buona situazione patrimoniale del P..
Avverso la sentenza ricorre per cassazione il P. articolando due motivi. Resistono con controricorso la Cassa di Risparmio di Orvieto ed il M.. La prima ha proposto ricorso incidentale con unico motivo, mentre il M. ha formulato ricorso incidentale condizionato con unico motivo. Ad entrambi ha replicato il P. con separati controricorsi, illustrati da memoria. La curatela del Fallimento del P. non ha svolto attività difensiva.
 
MOTIVI DELLA DECISIONE
 
l. Con il primo motivo il ricorrente principale deduce violazione degli artt. 1175, 1218, 1375, 1845, 2043, 2697, 2909 c.c.; artt. 99, 100, 112, 115, 116, 324, 342, 345 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, nonchè difetto e contraddittorietà della motivazione.
Afferma il ricorrente di aver prospettato con l'atto di appello la contrarietà alle regole di correttezza e buona fede del recesso operato dalla banca deducendone l'illegittimità, pur se altrimenti formalmente legittimo in quanto discendente dall'esercizio di un diritto di natura legale e/o pattizia. Osserva che il dovere di buona fede enunciato dagli artt. 1175 e 1375 (per quanto attiene all'esecuzione del contratto) costituisce il limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva, anche sotto il profilo dei doveri di solidarietà per cui ciascuno dei contraenti è tenuto a salvaguardare l'interesse dell'altro, se ciò non comporti un apprezzabile sacrificio dell'interesse proprio.
La violazione del dovere di buona fede si pone quindi come fonte della responsabilità, anche risarcitoria, per la parte cui essa è imputabile. Rammenta che questa Corte ha affermato la sindacabilità, proprio sotto il profilo degli obblighi di buona fede, del diritto potestativo di recesso, ancorchè ciò non implichi l'invalidità della clausola perchè oggetto di sindacato è il suo concreto esercizio.
Sarebbe stato quindi onere della Corte di merito sindacare nel merito l'avvenuto esercizio del recesso, attività cui invece il giudice di appello non aveva provveduto, essendo tale recesso repentino, tautologicamente motivato, in assenza di alcun elemento di anomalia nello svolgimento del rapporto di conto corrente. Il P. infatti godeva di ampio credito e non era protestato.
Non era poi vero quanto affermato dalla Corte di appello e cioè che si fosse ormai formato il giudicato sulla legittimità del recesso.
Il P. infatti aveva riconosciuto soltanto l'astratta legittimità del recesso, intesa come riconducibilità dello stesso ad un diritto astrattamente previsto da una norma di legge e/o pattizia. Aveva però lamentato che le modalità con cui in concreto tale diritto era stato esercitato costituivano violazione del dovere di buona fede ed erano fonte di responsabilità. Il giudicato, se formatosi, riguardava soltanto la titolarità in capo alla Cassa del diritto di recedere, ma non le modalità con cui la banca si era avvalsa di tale diritto. Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione degli artt. 1175, 1218, 1375, 1845, 2043, 2697, 2909 c.c.;
artt. 99, 100, 112, 115, 116, 324, 342, 345 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, nonchè difetto e contraddittorietà della motivazione. La Corte avrebbe errato nel ritenere travolto, in conseguenza del rigetto dell'appello nei confronti della Cassa, anche il gravame proposto per quanto concerneva la domanda formulata nei confronti del M.. Non essendosi avveduti dell'autonomia di tale impugnazione, i giudici di appello avrebbero violato anche l'art. 112 c.p.c..
Contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di merito, l'affermazione dell'appellante che il M., nella qualità di presidente della Cassa, avesse concorso ad adottare la deliberazione di recesso, contra ius e lesiva dei diritti del debitore, collegata al rilievo che egli avrebbe omesso di rappresentare all'istituto di credito l'effettiva situazione patrimoniale del P. di cui era a completa conoscenza ed alla sottolineatura che recedere sarebbe stato contro gli interessi della banca, non significava per il ricorrente "farsi promotore degli interessi della parte avversa", ma sottolineare l'esistenza di un nesso di causalità adeguata fra la decisione della banca di recedere ed il comportamento, quantomeno colposo, del suo presidente, donde la dedotta responsabilità ex art. 2395 c.c. ed ex art. 2043 c.c., perchè contrario al principio di buona fede ed al generale dovere del neminem laedere. Sotto questo profilo la Corte d'appello non avrebbe neppure assolto l'onere di motivazione.
2. Con l'unico motivo del ricorso incidentale la Cassa di Risparmio di Orvieto deduce violazione dell'art. 43 L. Fall..
Lamenta che la Corte di appello non si sia avveduta che il P., in quanto fallito, era privo di capacità processuale perchè in suo luogo avrebbe potuto stare in giudizio soltanto il curatore, trattandosi di controversia a contenuto patrimoniale non afferente i rapporti previsti dalla L. Fall., art. 46. Nella specie il principio affermato dalla giurisprudenza che il difetto di legittimazione del fallito non può essere rilevato d'ufficio e non può esser fatto valere da soggetti diversi dal curatore, non troverebbe applicazione nel caso di specie perchè gli organi fallimentari avrebbero valutato la non convenienza dell'avvio dell'iniziativa giudiziale. L'inerzia del curatore, corrispondente a sua scelta ponderata, si potrebbe ricavare dal fatto che egli non ha proposto opposizione ai decreti ingiuntivi chiesti nei confronti del P. da parte della banca ricorrente incidentale e da altre banche. Analoghe conclusioni si potrebbero ricavare dalle comunicazioni dirette alla banca dal curatore e dal fatto che egli non ha ritenuto di costituirsi nel presente giudizio.
4. Con il ricorso incidentale condizionato M.G. deduce difetto di motivazione e violazione dell'art. 112 c.p.c., lamentando che la Corte di appello non abbia pronunciato sulle difese nel merito che egli aveva sviluppato e che ripropone. Osserva che il ricorrente non ha chiarito se la sua responsabilità deriverebbe dalla condotta posta in essere quale amministratore della banca ovvero al di fuori dell'attività riferibile a tale carica o per entrambi i titoli. Sotto il primo profilo rammenta che lo statuto della banca non attribuisce alcuna delega operativa al presidente;
che egli si astenne dalle deliberazioni ogni qual volta era questione della posizione del P. onde evitare il conflitto di interessi che derivava dall'essere anche commercialista di quest'ultimo. Nè era sostenibile che il M. fosse tenuto a rappresentare alla banca le condizioni economiche del P. perchè in tale ipotesi avrebbe agito in conflitto di interessi, ponendo addirittura in essere un fatto di reato.
Quale libero professionista il M. doveva invece rispettare anzitutto il segreto professionale e pertanto non avrebbe potuto riferire alla banca le condizioni patrimoniali del P., che neppure conosceva completamente posto che il ricorrente gli aveva taciuto la sua esposizione verso altra banca.
4. Va disposta la riunione dei ricorsi ex art. 335 c.p.c..
Occorre esaminare preliminarmente il ricorso incidentale della Cassa di Risparmio di Orvieto che eccepisce il difetto di legittimazione attiva del fallito in relazione al suo status, alla luce dell'attribuzione al curatore della legittimazione relativamente ai rapporti patrimoniali non ricompresi nell'ambito della L. Fall., art. 46 (arg. L. Fall., art. 43).
Il ricorso non è fondato.
Va premesso che questa Corte ha più volte affermato, con riferimento ai rapporti tributari, che sussiste l'eccezionale legittimazione sostitutiva del fallito ad agire avanti al giudice tributario in luogo del curatore, in caso di inerzia di quest'ultimo, tutte le volte che tale inerzia non corrisponda in realtà ad una scelta consapevole di non impugnare l'accertamento effettuato dall'Amministrazione (Cass. 16.4.2007, n. 8990; Cass. 3.4.2006, n. 7791; Cass. 12.5.2006, n. 11068; Cass. 20.12.2006, n. 27263; Cass. 19.3.2007, n. 6476). A fondamento di tale orientamento si è sottolineato da un lato che il fallito non è privato, a seguito della dichiarazione di fallimento, della sua qualità di soggetto passivo del rapporto tributario e resta esposto ai riflessi della definitività dell'atto impositivo e dall'altro che la perdita della capacità processuale derivante dalla dichiarazione di fallimento non è assoluta, ma relativa alla massa dei creditori, alla quale soltanto - e per essa al curatore - è concesso di eccepirla.
Tali principi sono stati estesi da questa Corte anche al di fuori della materia tributaria, ad esempio in caso di inerzia del curatore in materia di diritti ereditari (Cass. 22.7.2005, n. 15369) e, in materia affine a quella in esame, in tema di azione di responsabilità contro gli amministratori di società (Cass. 27.10.1994, n. 8860).
Come si è detto, la legittimazione ad eccepire il difetto di legittimazione del fallito spetta soltanto alla massa dei creditori e per essa al curatore, sì che, quando questi non sia parte del giudizio, l'incapacità del fallito non può essere rilevata d'ufficio (Cass. 16.4.2007, n. 8990) nè può essere eccepita dalle altre parti presenti in giudizio.
5. Il primo motivo del ricorso principale è fondato. E' indubbio il vizio di motivazione in cui è incorsa la sentenza impugnata.
La Corte d'appello ha ritenuto di poter affermare l'infondatezza del gravame perchè esso sarebbe stato diretto a sostenere l'illegittimità del comportamento tenuto dalla banca con il recesso immotivato e brutale dall'affidamento concesso a fronte del giudicato che si sarebbe ormai formato sulla legittimità di tale recesso. Ciò perchè lo stesso appellante aveva chiarito che le sue doglianze non avevano ad oggetto ".- l'illegittimità del recesso, inteso nella sua formale ed asettica valenza negoziale ... ma piuttosto si appuntavano sul rilievo della illiceità del comportamento sotteso alla dichiarazione di recesso", affermazione cui conseguiva, ad avviso della Corte di merito, il riconoscimento che il recesso in parola era legittimo.
In realtà il Tribunale, come risulta dalla stessa narrativa della sentenza impugnata, aveva ritenuto la legittimità del recesso della banca in ragione della mancata opposizione ai decreti ingiuntivi di recupero dei crediti ed alla sentenza dichiarativa di fallimento che ne erano seguiti, sì che sul punto si sarebbe formato il giudicato.
A fronte di tale statuizione, il P. con l'atto di appello aveva in realtà insistito sulle tesi già sviluppate nell'atto introduttivo del giudizio, perchè se in citazione aveva lamentato "... la assoluta ingiustificatezza, imprevedibilità e brutalità del recesso ...", sottolineando che esso era sindacabile restando ".. pur sempre da rispettare il fondamentale principio dell'esecuzione dei contratti secondo buona fede (art. 1375 c.c.), sì che il recesso era "da considerare illegittimo, ove in concreto esso assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari", con l'appello aveva osservato che le sue doglianze non riguardavano il recesso "nella sua formale ed asettica valenza negoziale, quasi che, ad esempio, lo stesso fosse stato esercitato senza il rispetto dei termini e delle forme previsti dalla legge o dal contratto. Ma piuttosto si appuntavano sul rilievo dell'illiceità del comportamento sotteso alla dichiarazione di recesso" per violazione del dovere di buona fede nell'esecuzione del contratto.
In conclusione la Corte di appello non si è avveduta che il ricorrente aveva posto a fondamento della domanda e dell'appello la medesima causa petendi, vale a dire la contrarietà al dovere di buona fede nell'esecuzione del contratto del comportamento della banca, tenuto in violazione dell'art. 1375 c.c..
Nè appare fondata l'ulteriore argomentazione della Corte di merito che ha sostenuto che la violazione dei doveri di correttezza e buona fede non rileva, ove essi non siano considerati in forma primaria ed autonoma da una norma che direttamente tuteli un diritto altrui.
Tale principio si pone in pieno contrasto con quanto affermato da questa Corte che ha riconosciuto che l'esercizio del diritto di recesso, contrattualmente stabilito, deve essere valutato nel complessivo contesto dei rapporti intercorrenti tra le parti, onde accertare se detto recesso sia stato o meno esercitato secondo modalità e tempi che non rispondono ad un interesse del titolare meritevole di tutela, ma soltanto allo scopo di arrecare danno all'altra parte, incidendo sulla condotta sostanziale che le parti sono obbligate a tenere per preservare il reciproco interesse all'esatto adempimento delle rispettive prestazioni (Cass. 16.10.2003, n. 15482). E più in generale si è affermato che il principio di correttezza e buona fede, il quale secondo la Relazione ministeriale al Codice Civile, "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", deve essere inteso in senso oggettivo ed enuncia un dovere di solidarietà, fondato sull'art. 2 Cost., che, operando come un criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell'imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. Dalla violazione di tale regola di comportamento può discendere "ex se", ove provato, un danno risarcibile (Cass. 27.10.2006, n. 23273; Cass. 28.9.2005, n. 18947; Cass. 11.2.2005, n. 2855).
Va in particolare sottolineato che questa Corte ha affermato che la clausola di buona fede nell'esecuzione del contratto opera come criterio di reciprocità, imponendo a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra e costituisce un dovere giuridico autonomo a carico delle parti contrattuali, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da norme di legge; ne consegue che la sua violazione costituisce di per sè inadempimento e può comportare l'obbligo di risarcire il danno che ne sia derivato (Cass. 11.2.2005, n. 2855).
Era quindi obbligo della Corte d'appello verificare se, secondo l'allegazione del ricorrente, il recesso della banca potesse essere qualificato come illegittimo o potesse in ogni caso costituire titolo per l'azione di danni, indagine che dovrà ora essere compiuta dal giudice di rinvio.
Vero è che la Corte di merito ha affermato che l'illegittimità del recesso non sarebbe più ravvisabile per essersi formato "il giudicato sul contrario riconoscimento di legittimità", ma tale affermazione appare equivoca perchè non è chiaro se con essa i giudici di merito hanno inteso trarre conseguenze dalla precedente qualificazione dell'appello del P. come diretto a sostenere l'illegittimità del comportamento della banca a prescindere dalla validità dell'atto di recesso, o se invece hanno inteso affermare che sulla legittimità del recesso si sarebbe formato il giudicato, come affermato dal Tribunale, in ragione della mancata opposizione ai decreti ingiuntivi ottenuti dalla banca ed alla dichiarazione di fallimento.
La motivazione della Corte d'appello su questo punto è così sintetica da risultare incomprensibile, sì che sul punto dovrà pronunciarsi il giudice di rinvio.
La sentenza impugnata va pertanto cassata con rinvio alla Corte di Appello di Perugia, in diversa composizione, che pronuncerà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
Il secondo motivo del ricorso principale ed il ricorso incidentale del M. rimangono assorbiti.
 
P.Q.M.
 
La Corte rigetta il ricorso incidentale della Cassa di Risparmio di Orvieto; accoglie il primo motivo del ricorso principale, assorbiti il secondo ed il ricorso incidentale del M.; cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Perugia in diversa composizione, anche per le spese.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima civile, il 20 giugno 2008.
Depositato in Cancelleria il 6 agosto 2008
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