Tribunale Firenze sentenza n 710 2008

TRIBUNALE ORDINARIO DI FIRENZE
SEZIONE LAVORO
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il dr. Giampaolo Muntoni in funzione di Giudice, del lavoro ha pronunziato la seguente


SENTENZA


nella causa .n. 3142/2007


promossa da xxxx


contro CASSA NAZIONALE DI PREVIDENZA E ASSISTENZA FORENSE in persona del leg. rapp.te pro tempore con il proc. xxx


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E CONCLUSIONI DELLE PARTI


Con il ricorso introduttivo il ricorrente xxx esponeva di essere iscritto alla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense e di avere presentato in data 29/06/2006 regolare domanda con la quale chiedeva, in ragione della nascita del figlio avvenuta 1'8/05/2006, che gli venisse riconosciuta l'indennità di maternità prevista peri liberi professionisti dall'ara 70 Capo XII del D. Lgs_ n. 151/01, così come modificato dall'art. I L. n. 289/03.
L'esponente fondava la propria richiesta sostenendo - alla luce dei principi  contenuti nella sentenza della Corte Costituzionale n. 385 del 14.10.2005 in tema dì affidamento preadottivo, con riconoscimento del ruolo  paritario dei genitori- che il diritto ad ottenere la corresponsione della citata indennità dovesse essere riconosciuto, in paritaria alternativa rispetto alla madre, anche a favore dei padri liberi professionisti.
La domanda veniva respinta dalla Cassa Nazionale in quanto la sentenza della Corte Costituzionale sarebbe da qualificare come "additiva di principio", pertanto non avente un'efficacia immediatamente precettiva.Il principio da essa espresso, secondo la Cassa, avrebbe necessitato di uno specifico intervento del legislatore per essere considerato parte effettiva dell'ordinamento statale. In assenza di un intervento di tal genere la norma, nel riferirsi espressamente ed esclusivamente alle libere professioniste, precluderebbe il riconoscimento di detta indennità a favore del libero professionista maschio.
Il ricorrente concludeva chiedendo al Giudice di accertare e dichiarare il suo diritto ad ottenere l'indennità di maternità di cui all'art. 70 D. Lgs. 151/2001 e, per l'effetto, condannare la Cassa Nazionale dì Previdenza e Assistenza Forense alla corresponsione della somma in suo favore di €. 21.448,33 pari alla detta indennità calcolata ai sensi dell'art. 70 II c. D, Lgs. n. 151/01, maggiorata degli interessi e della rivalutazione monetaria dal dì del dovuto.
La Cassa concludeva chiedendo di respingere ìl ricorso in quanto infondato in fatto ed in diritto; in subordine, in caso di accoglimento della domanda principale, chiedeva dichiararsi non spettante al ricorrente il cumulo fra interessi e rivalutazione monetaria sulle somme richieste.

MOTIVI DELLA DECISIONE

La domanda proposta dal ricorrente è fondata e deve trovare accoglimento.
Il Giudice osserva che l'interpretazione costituzionalmente orientata della norma di cui all'art. 70 I c. D. Lgs n. 151/2001 consente di accertare il diritto all'indennità di maternità non solo in capo alla madre libera professionista ma anche, in alternativa a questa, al padre libero professionista.
La norma in questione, infatti, sì colloca in un quadro, delineato dal legislatore {italiano e comunitario) e dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, tendente a superare la tradizionale prospettiva di tutela della maternità intesa come prerogativa esclusiva della donna a favore di una concezione, maggiormente adeguata all'evoluzione sociale, in base alla quale ambedue ì genitori sono chiamati paritariarnente alla cura del figlio nei suoi primi mesi di vita.
Per delineare più specificamente tale evoluzione è utile richiamare ['Accordo quadro sul congedo parentale fatto proprio dalla direttiva 96/34/CE, recepita nel nostro ordinamento dalla L. n. 53/2000 e dal successivo D, Lgs. n.151/2001. Tale Accordo individua l'obiettivo dì conciliare le esigenze familiari con quelle professionali, in conformità con quanto prevede il punto 16 della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali, al fine dì stimolare la partecipazione alla vita attiva e lavorativa della donna e correlativamente l'impegno familiare del padre. Obiettivo, questo, perseguito dal nostro legislatore con i provvedimenti legislativi (L. e D. Lgs.) richiamati.
Il fine perseguito dalla normativa comunitaria è, dunque, quello di porre sii di una posizione paritaria il padre e la madre nella cura dei nascituro, in modo che essa sia assicurata da entrambi i genitori.
La Corte Costituzionale ha avuto modo di precisare, nella sentenza n. 385/2005 che, come si evince dalla ratio sottesa a tali interventi normativi, gli Istituti nati a salvaguardia della maternità non hanno più, come in passato, il fine precipuo ed esclusivo di protezione della donna, ma sono destinati alla difesa del preminente interesse del bambino, il quale va tutelato noti solo per ciò che attiene ai bisogni più propriamente fisiologici ma anche in riferimento alle esigenze di carattere relazionale ed affettivo che sono collegate allo sviluppo della sua personalità (sentenza n. 179 del 1993).
Nella sentenza n. 17911993 la Corte afferma:
pur permanendo la coscienza della funzione sociale della maternità si è andato sempre più valorizzando il prevalente interesse del bambino e - superandosi una rigida concezione della diversità dei ruoli dei due genitori o dell'assoluta priorità della madre - si sono riconosciuti paritetici diritti-doveri di entrambi i coniugi e la reciproca integrazione di essi alla cura dello sviluppo fisico e psichico del loro figlio...'
"la svolta veniva avvertita e favorita da questa Corte con la sentenza 14 gennaio 1987, n. 1, 10 marzo 1988, n. 276- 11 marzo 1988, n. 332, 19 ottobre 1983  n.972, 8 febbraio 1991 n, 61 e 15 luglio 1991, n. 341…”
"queste sentenze, infatti, oltre a riconfermare e potenziare i diritti della madre-lavoratrice, elevano ancor più la posizione del bambino quale autonomo titolare di interessi da salvaguardare nell'ambito della legislazione protettiva, e sottolineano che il figlio va tutelato, non solo per ciò che attiene ai bisogni più propriamente fisiologici., ma anche in riferimento alle esigenze di caratteri: relazionale ed affettivo che sono collegate allo sviluppo della sua personalità'. In questo contesto, 'anche il padre è idoneo - e quindi tenuto - a prestare assistenza materiale e supporto affettivo al minore', e lo stesso dicasi riguardo alla paternità e maternità legali".
L'art. 70 1 c. D. Lgs. 151/2001 cit. si colloca nel quadro normativo e giurisprudenziale che risulta dalla giurisprudenza complessiva della Corte Costituzionale, cosicché si impone di dare alla norme in esame un'interpretazione con tale quadro coerente, e, in altre parole, costituzionalmente orientata.
L'interpretazione adeguatrice delle norme citate costituisce soluzione obbligata che rende inappropriata e indebita ogni ipotesi di sottoposizione della norma al vaglio della Corte Costituzionale, essendo il giudice obbligato, prima di sollevare questione di legittimità costituzionale, a verificare la presenza di un'interpretazione conforme a Costituzione (cfr. Corte Cost,, ordin. n. 452/2005,  361/2005, 283/2005, 433/2004; sent. n. 198/2003, 107/2003, 316/2001, 113/2000). L'interpretazione costituzionalmente adeguatrice implica necessariamente una operazione estensiva o riduttiva rispetto al tenore letterale della norma. Nel caso in esame si tratta di un intervento che, per applicare la norma in modo compatibile con la Costituzione e, più in generale, con il quadro dei principi generali soprarichiamati, implica l'estensione del tenore letterale della norma dovendosi essa riferire non solo alle madri ma anche ai padri professionisti.
Del resto, 1a stessa Corte, con la citata sentenza n. 385/2005, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli arti. 70 e 72 D, Lgs. cit, nella parte in cui non prevedono che al padre spetti di percepire l'indennità di maternità in alternativa alla madre, attribuita dalla normativa solo a quest'ultima.
E' vero che la sentenza della Corte si riferisce al caso in cui vi sia un affidamento preadottivo del minore e non anche alla filiazione biologica, ma è vero anche che, le medesime argomentazioni da essa utilizzate valgono pure per quest'ultima ipotesi. Dopo aver richiamato, infatti, il principio per cui è il figlio il principale soggetto cui è rivolta la tutela delle norme sulla maternità, la Corte afferma che:
Occorre garantire un'effettìva parità di trattamenti, fra i genitori - nel preminente interesse del minore - che risulterebbe gravemente compromessa ed incompleta se essi non avessero la possibilità di accordarsi per un’organizzazione familiare e lavorativa meglio rispondente alle esigenze dì tutela della prole, ammettendo anche il padre ad usufruire dell'indennità di cui all'art. 70 del Dlgs, n. 151 del 2001 in alternativa alla madre. In caso contrario, nei nuclei familiari in cui A padre esercita una libera professione verrebbe negata ai coniugi Ia delicata scelta di chi, assentandosi dal lavoro per assistere il bambino, possa meglio provvedere alle sue esigenze, scelta che, secondo la giurisprudenza menzionata di questa Corte, non può che essere rimessa in via esclusiva all'accordo dei genitori, In spirito dì leale collaborazione e nell'esclusivo interesse del figlio (sentenza n. 179 del 1993) (….).
“1a violazione del principio di uguaglianza appare ancor più evidente se si considera che il legislatore ha riconosciuto tale facoltà ai padri che svolgano un'attività di lavoro dipendente: il non aver esteso analoga facoltà ai liberi professionisti determina una disparità di trattamento fra lavoratori che non appare giustificata dalle differenze, pur sussistenti, fra le diverse figure (differenze che non riguardano, certo, il diritto a partecipare alla vita familiare in egual misura rispetto alla madre), e non consente a questa categoria di padri-lavoratori di godere, alla pari delle altre, di quella protezione che, l'ordinamento assicura in occasione della genitorialità, anche adottiva".
Del resto, che la norma di cui all'art. 70 D. Lgs. n. 151/2001 debba essere interpretata nel senso che il diritto dell'indennità di maternità spetti anche al padre libero professionista è desumibile anche in base ad un'altra considerazione. La disposizione, infatti, attribuisce alla madre libera professionista tale indennità ma non la subordina all'astensione obbligatoria dal lavoro. In altre parole, ella avrebbe il diritto di fruirne pure ove, per ipotesi, decidesse di continuare la sua attività lavorativa anche immediatamente prima e dopo U parto. Se ne deduce che la ratio della norma non può essere individuata nell'esigenza di tutela della salute della donna, con esclusione quindi del padre dal diritto all'indennità. La finalità è invece quella di assicurare la migliore cura del nascituro. In questo senso, quindi, la migliore cura non può che essere assicurata da entrambi í genitori, i quali, come affermato dalla Corte Costituzionale, sono i migliori interpreti delle esigenze familiari e devono quindi poter scegliere se e come assentarsi dal lavoro nel modo più adeguato alla cura del loro figlio.
Deve pertanto essere riconosciuto il diritto dei xxxxx all'indennità di maternità di cui all'art. 70 D. Lgs. 151/2001.
La Cassa convenuta sostiene che, anche laddove tale dirìtto fosse riconosciuto, il xxxx non avrebbe comunque diritto alla corresponsione della somma richiesta in quanto già sua moglie avrebbe percepito altra indennità di maternità. Tale eccezione è rimasta però allo stato di  mera asserzione, non suffragata da alcuna prova. Rimane quindi accertato quanto dichiarato dal xxxx, secondo il quale sua moglie, biologa, non ha chiesto alcuna indennità di maternità e dunque non si verifica alcuna duplicazione del trattamento.
Infine, nella denegata ipotesi di accoglimento della domanda principale proposta dal xxxx, la Cassa chiede di essere condannata a pagare l'indennità calcolata senza che sia operato il cumulo fra interessi e rivalutazione monetaria, trattandosi di un credito di natura previdenziale per il quale trova applicazione la norma di cui all'art. 16, VI r, L. n. 412/1991. Secondo tale norma: ".. . l'importo dovuto a titolo di interessi è portato in detrazione dalle somme eventualmente spettanti al titolare della prestazione a titolo di risarcimento del maggior danno cagionatogli dalla diminuzione di valore del suo credito".
Si tratta di una norma inserita nell'ordinamento dal legislatore per esigenze di finanza pubblica, che si pone in deroga alla disciplina generale sancita per i crediti dì lavoro dall'art, 429, III c. c.c. il quale prevede il cumulo fra interessi e rivalutazione monetaria peri crediti di lavoro. In proposito è utile richiamare quanto statuito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 45912000, con la quale la stessa Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 22, comma 36, della legge 23 dicembre 1994, n. 724, nella parte in cui estendeva ai rapporti di lavoro privati la regola della non cumulabilità fra interessi e rivalutazione monetaria per i crediti di lavoro. La Corte afferma che:
“la prima (e, di per sé, già decisiva) giustificazione dei trattamento privilegiato attribuito ai crediti di lavoro sta [ ... ] nella qualità stessa dei credito che trova.- nella, sfondo, il presidio e la garanzia (per così dire rafforzata) di più precetti costituzionali, quali quelli contenuti negli artt. 1, 3 cpv, 4, 34 e 36".
"Sulla base di siffatta premessa la Corte ha quindi ritenuto che il citato art. 429 cod., proc- civ. si collocasse razionalmente nel contesto di tale peculiare tutela, apprestando un meccanismo di conservazione del valore in senso economico delle prestazioni dovute al lavoratore volto a preservare (o, comunque, ripristinare) quel potere di acquisto di beni reali che si connette alla retribuzione ed alle indennità di fine rapporto (costituenti la parte indecurtabilmente  prevalente dei crediti del lavoratore) e nel contempo ad eliminare il  vantaggio che (in precedenza) conseguiva il datore di lavoro col ritardato adempimento Ulteriore ma non secondaria ragione giustificatrice della norma è stata altresì rinvenuta nella sua funzione di remora rispetto (…) al fatto stesso del non puntuale adempimento alla scadenza delle prestazioni destinate ad assolvere esigenze primarie del lavoratore' (sentenza n. 13 del 1977; in senso conforme le sentenze n. 207 del 1994, n. 76 del 1981, n. 161 dei 1977).
Continua la Corte;
"La citata giurisprudenza, pur riferita all'art. 429, comma terzo, cod- proc. civ., ha, del resto, rappresentato, sotto altro aspetto, il presupposto logico delle dichiarazioni di illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt, 3 e 38 Cost., dell'art. 442 cod. proc_ civ., nella parte in cui non prevedeva un analogo meccanismo di tutela per i crediti previdenziali e per quelli assistenziali (sentenze n. 196 del 1993 e n. 156 del 1991).
Prosegue la Corte:
noto che il legislatore ha nuovamente escluso, con l'art. 16, comma 6, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 (Disposizioni in materia di finanza pubblica), il cumulo di interessi legali e rívalutazíone per i crediti previdenziali e che detta norma ha superato indenne il vaglio di costituzionalità, con riferimento ancora ai parametri di cui agli artt. 3 e 38 Cost.
Le uniche ragioni giustificatrici dell'intervento legislativo sono state peraltro individuate dalla Corte, in un -contesto di progressivo deterioramento degli equilibri della finanza pubblica, nella 'necessità di una più adeguata ponderazione dell'interesse collettivo al contenimento della spesa pubblica necessità costituente, come reso evidente anche dal suo inserimento nella legge finanziaria, `ratio autonoma' della norma in quella sede censurata (sentenza n. 361 del 1996)".
La Corte costituzionale afferma, quindi, che le ragioni costituzionali che sono a fondamento della disciplina posta dall'art. 429, III e., c.p.c. valgono anche per i crediti previdenziali e che solo una ragione di contenimento della finanza pubblica ha permesso di giustificare l'introduzione nell'ordinamento della norma di cui all'art. 16, VI c,, L. n. 412/1991.
La ratio posta a fondamento della norma di cui all'art. 16, VI e,, L. n. 41211991 si rinviene, dunque, secondo la Corte costituzionale, in esigenze di equilibrio di finanza pubblica e di contenimento della spesa pubblica.
Così chiarita la ratio della norma in questione, occorre ora accertare se essa sia o meno applicabile anche ai crediti vantati dagli avvocati nei confronti della Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense.
La Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense, originario ente pubblico svolgente attività previdenziale ed assistenziale, è stata sottoposta al processo dì privatizzazione, avviato dalla legge delega 24 dicembre 1993, n. 537, avente ad oggetto gli enti di previdenza e assistenza- L'art. 1, comma 33, della legge cit, ha indicato ì criteri direttivi ai quali ìl governo si è conformato nel realizzare l'obiettivo della razionalizzazione degli enti di assistenza e previdenza: essi sono riassunti nell'esigenza di fondere, sopprimere o incorporare enti svolgenti attività similare onde evitare inutili duplicazioni. La fusione o incorporazione é invece stata espressamente esclusa per gli enti pubblici dì previdenza e assistenza non destinatari di finanziamenti pubblici o altri ausili pubblici di carattere finanziario, peri quali è stata prevista la privatizzazione nelle forme dell'associazione o della fondazione.
La Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense rientra fra gli enti trasformati dal D. Lgs. n. 509/1994 in fondazioni in quanto non destinatari di finanziamenti pubblici, enti quali la disciplina del decreto, in conformità con i criteri direttivi sanciti dalla legge delega citata, assicura autonomia gestionale, organizzativa, amministrativa e contabile, ferme restando le finalità istitutive e l'obbligatoria iscrizione e contribuzione agli stessi da pane dei soggetti appartenenti alle categorie rappresentate.
La natura giuridica di fondazione di diritto privato della Cassa nazionale esclude che ad essa sia applicabile la norma di cui all'art. 16, VI c. L. n. 412/1991. Infatti, tale norma, come detto, trova giustificazione nella misura in cui assolve ad esigenze di finanza pubblica, esigenze che non riguardano la fondazione Cassa nazionale Previdenza Avvocati, in quanto si tratta di un ente privato non destinatario di finanziamenti pubblici.
Ne consegue che si deve operare il cumulo di rivalutazione e interessi legati sul credito attribuito al ricorrente. Pertanto la Cassa convenuta deve essere condannata al pagamento della somma di Euro 21,448,33, pari alla indennità di maternità calcolata ai sensi dell’art.70 II co D.Lgs. 151/2001 maggiorata degli interessi e della rivalutazione monetaria dalla data
Il ricorso viene quindi accolto.
Si ravvisano giusti motivi per compensare le spese di causa.

PQM
I1 Giudice


dichiara il diritto dei ricorrente xxxxxxx, ad ottenere l'indennita di maternità prevista dall'art. 70 D. Lgs. 151/01 come modificato dall'art. 1 della L. n. 289/03;
condanna la Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Forense in persona del legale rappresentante pro tempore al pagamento in favore di xxxxxxxxx della somma di Euro 21.448,33, pari alla detta indennità calcolata ai sensi dell'art. 70 Il ce. D. Lgs. 151/01 maggiorata degli interessi e della rivalutazione monetaria dal di del dovuto;
compensa le spese di causa


Firenze, 29 maggio 2008

 

 

 

 

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